sabato 5 maggio 2007

6 - UN MARSUPIO PER AMICO


F. B., mamma
Quando Paola mi ha proposto di riportare la mia testimonianza riguardo al “lato oscuro della maternità” sono rimasta perplessa.
Il lato oscuro? Ma quale lato oscuro? Il mio bimbo di ormai quasi tre anni è dolcissimo, sereno, affettuoso, semplicemente meraviglioso e mi riempie la vita di un amore del tutto nuovo, ma talmente intenso ed appagante che non credevo di poter essere capace di provare. Io proprio non lo vedo questo lato oscuro.
E poi ecco un flash.
Come un lampo dal passato, che avevo ormai seppellito nella memoria dei tempi (lo so, sono soltanto tre anni che Matteo è nato, ma si sa che i primi tre anni da mamma valgono una vita).
Oddio, forse non è proprio stato tutto rose e fiori, soprattutto all’inizio…

Matteo è nato dopo un normalissimo, seppur faticosissimo, travaglio durato dodici ore. Appena ho partorito ho pensato: ok, il peggio è passato. Adesso non mi rimane che godermi questo meraviglioso cucciolo che è entrato a far parte della mia vita.
Dopo dodici ore dalla sua nascita ho lasciato Casa di Maternità per tornare nel nostro nido. Ero piena di entusiasmo, per la novità, per la meravigliosa giornata appena trascorsa, per tutte le deliziose aspettative che mi riempivano la testa.
Prima notte, tutto ok. Mio marito Fabio si addormenta stremato, il piccolo Matteo è tranquillo, io sono felice…eppure non riesco a chiudere occhio perché ho il timore che nel sonno possa capitargli qualcosa. Cerco di tranquillizzarmi ma niente da fare. È come se dovessi vegliarlo perché è così piccolo ed indifeso e la sua vita mi pare appesa ad un filo. Sono l’unica a tenerlo ancorato a questo mondo!
Rimango sveglia. La mattina dopo mi sento stanca, ma non me ne preoccupo: è tutto ok, devo solo digerire l’enorme cambiamento che mi ha investita nelle ultime ore.
In tarda mattinata Fabio riceve una telefonata dall’ufficio. Un’emergenza, deve andare. Che fare? Vorrei dirgli di rimanere, ma non posso. Lui lavora in proprio e non può permettersi troppi casini sul lavoro, contando poi che il suo è l’unico stipendio su cui possiamo contare; poi in fin dei conti sta per arrivare mia madre, non rimango mica da sola…
Mia madre in effetti arriva, ma rimane soltanto un paio d’ore perché poi deve tornare al lavoro pure lei. Ma niente paura, adesso è in arrivo mia suocera e presto arriverà anche Nadia per la visita, non rimango mai sola…
Eppure qualcosa non mi torna, tutto questo andirivieni di gente mi confonde, mi disorienta: non c’è nessuno che mi rimanga accanto per più di pochi attimi. La situazione si stabilizza così per giorni e giorni. Gente che arriva, gente che parte… soltanto io rimango, come una reclusa, ad occuparmi di questo piccolo neonato che mi sembra incomprensibile: che vuole da me? E mai possibile che nulla gli basti? Si attacca al seno ogni ora, tanto che i miei capezzoli, la cui epidermide è particolarmente delicata, si sgretolano sotto le sue gengive e sanguinano e mi fanno vedere le stelle. Non appena finisce di mangiare fa la cacca e bisogna cambiarlo da capo a piedi e poi crolla in un sonno profondo a cui io non riesco proprio ad adeguarmi. Sono stremata, eppure ci metto molto tempo ad assopirmi e non appena ci riesco lui si sveglia di nuovo e ricomincia tutto! E come se non bastasse la mia montata è incontenibile tanto che i miei seni sembrano fontane. Meglio - direte voi - si sente sempre di mamme che non hanno abbastanza latte o temono di non averne, di che ti puoi lamentare? Eppure io me ne lamento, eccome! Sono sempre fradicia, non c’è coppetta assorbilatte che tenga, eppure siamo solo in marzo e fa freddo e poi avere perennemente addosso quell’odore dolciastro mi nausea.
Gli ormoni non mi aiutano, sono depressa, affranta, privata di me stessa.
Io, che fino a pochi mesi prima ero una studentessa che trascorreva la sua giornata sui libri, a contatto con ambienti stimolanti, adesso sono uno zombie che si aggira per casa incapace di provvedere alle normali necessità quali mangiare e dormire regolarmente, una specie di dolorante mucca da latte.
Nadia e Paola mi ripetono che passerà, ma quando?
Quanto tempo ancora?
Finirà?
Riavrò la mia vita?
Smetterò di piangere e di sentirmi come uno zerbino?
Dopo circa venti giorni da incubo, una mattina decido che non ne posso più e che, sebbene io abbia terribili occhiaie e i capelli sporchi e i vestiti che sanno di rigurgitino e di latte materno, ho voglia di uscire. La primavera sta sbocciando e voglio proprio prendere un respiro lungo. Sistemo Matteo nel marsupio, per la prima volta, ed esco.
E da quel momento tutto cambia. Guardo il mio bambino, che è più bello di quel magnifico sole di primavera, e le signore che ci sorridono intenerite alla vista di quella dolce creatura che si è appena affacciata alla vita ed improvvisamente mi sembra che niente sia poi così faticoso. Sì, il seno fa ancora male e poi tutto quel latte mi infradicia ancora nei momenti meno opportuni, e fatico ancora ad abbandonarmi al sonno per paura che gli capiti qualcosa, ma adesso siamo qui io e lui, finalmente! E so, con certezza, che questi momenti così intensi li rievocherò tutta la vita.
Certo, dopo quel giorno le difficoltà non si sono dissolte come neve al sole, ma è stato l’inizio della fine. O meglio l’inizio dell’inizio di questa meravigliosa avventura che è la vita con il mio bimbo meraviglioso.
In passato mi sono domandata che senso avesse avuto tutto quel dolore e quella fatica. E mi sono risposta che non c’è nulla di bello che non debba essere conquistato, ma che ne vale sempre la pena.
Mentre scrivo, Sara, mia figlia, un feto di sei mesi, scalcia allegramente nella mia pancia.
Non ho dubbi, sono felice di andare incontro a nuovi dolori e a nuove fatiche perché, come dice anche la pubblicità, non c’è migliore avventura che avere figli.
Non so come sarà questa volta, ma una consapevolezza l’ho ormai maturata.
Tutto passa. Sempre.

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