sabato 5 maggio 2007

15 - D'IMPROVVISO L'OSCURITA'


E., mamma
D’improvviso l’oscurità.
Non vedo più chi sono, non vedo chi ho davanti.
Mi sento circondata, oppressa, soffocata. Devo lottare contro, gridare e sopravvivere.
E quella voce, quelle voci, che con insistenza implacabile mi chiamano, diventano un rumore percussivo e insopportabile: mamma, mamma, mamma…

«Basta, lasciatemi in pace! Bastaaaa!
Sono ai fornelli, sto cucinando per voi e non mi date tregua, neanche cinque minuti.
Non voglio più sentirvi, non fiatate, non una parola, silenziooo… almeno per cinque minuti.
Sì, sì, piangi; non ti farà male.
Non vuoi mangiare? Non mi importa, non morirai di fame.»
A quest’ora della sera non c’è più succo da spremere, è rimasta la buccia con il gusto un po’ amaro dell’agrume. Ma da qualche tempo, qualche volta, e anche più spesso, capita che il succo si esaurisca già al mattino. Basta un rifiuto, un dispetto, un capriccio, un sano gesto di emancipazione e come una cascata esce il veleno.
Tutto è fatica: vestirvi, addormentarvi, mangiare e uscir di casa. Ogni momento sembra saltar fuori una difficoltà, un’opposizione. Avete sempre voglia di giocare e io invece, con rigidità, distinguo gioco e incombenze; voi avete i vostri tempi e io ho solo voglia di finire presto.
Come vestiti zuppi e appesantiti mi siete addosso. Vorrei scrollarvi e liberarmi: non riesco più ad alzare un braccio, a muovere una gamba; sto andando sotto, sotto; sto affogando.
Ma nuda no, non ci starei mai. Mai sono stata un giorno, né una notte, senza di voi.

Eppure quante volte, accarezzando la mia pancia tesa, ho assaporato la felicità di sentirmi chiamare con quel nome: mamma. Pensavo alla dolcezza del suono delle due sillabe, al calore dell’abbraccio, al profumo di biscotto dei bambini, alle morbide guance in cui affondare un bacio.

Pensavo anche alla fatica di crescere e accudire due bambini, ma non a quella della solitudine, quando tenevo la mia pancia tra le mani.
Quando infatti il “bambino cresciuto” arriva a casa, ancora una volta l’attesa è delusa: altre richieste, a volte altre pretese. Io che speravo, se non in un aiuto, almeno in un diversivo che li distraesse dalla mia persona, mi sento dire: “Fa’ come se io non ci fossi. Non mi chiedere niente: sono stanco. Non sono a tua disposizione, non sono il servo. Che cosa hai preparato da mangiare? Ma non c’è questo e non hai cucinato quello? Che cosa hai fatto tutto il pomeriggio? Ma perché sei nervosa? Non sorridi mai. Che cosa ti manca? Sei fortunata, alle quattro sei già a casa: tu puoi stare con loro e rilassarti.”
Già, sono fortunata: lavoro poco e mi rilasso coi bambini! Sono fortunata!
No, davvero sono fortunata: non farei mai cambio. Solo una volta… o due, perché anche tu possa provare tutta la mia fortuna… insieme al mio relax!

Oscura solitudine della mia coniugalità. Oscurità della mia maternità. Nella seconda c’è lo zampino della prima. Ma la seconda pesa enormemente (più della prima): pesa vedermi senza più risorse, mi fa soffrire vedermi insofferente alle vostre richieste; mi opprime la tragica realtà e il senso di colpa di non riuscire a darvi il meglio… neanche di me stessa.
Sono una madre insufficiente, sono imperfetta (e perché non desiderare un po’ di perfezione non per me, per sentirmi la coscienza a posto, ma per voi, solo per voi); comunque sono così diversa da come ho desiderato essere e tuttora, nonostante tutto, con tutte le mie forze desidero.

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