sabato 5 maggio 2007

1 - PIU' CHE NORMALE

S. E., mamma
Leggendo i materiali di questo numero ho sentito un senso di inquietudine: le mie corde hanno vibrato, qualcosa si è mosso dentro, forse perché, data l'età dei miei piccoli (di cui la seconda non ha ancora capito bene che la notte si dorme), sono nell'occhio del ciclone, e forse perché mai come ora sento il peso di essere mamma. Metto in comune le mie riflessioni.

La solitudine accompagna la maternità: ce lo raccontano molti altri articoli.
Questa solitudine spesso è più intima che esteriore; e spesso qualcuno intorno c’è… fisicamente, ma il conforto che ne viene a volte si riduce in qualche bella frase: “visto il bel bambino che hai devi essere la donna più serena e felice del mondo”.
Sembra quasi che non siano consentiti pensieri e sentimenti diversi da quelli dell'attaccamento, della devozione al pargolo e delle difficoltà, della stanchezza, del disagio non si può parlare; per qualcuno, già solo che una madre possa provare difficoltà e disagio e provi a raccontarlo è la giustificazione per giudicare che non è poi una buona madre.

Giorno dopo giorno, nel silenzio imposto, tutto si accumula e può capitare di sprofondare in una situazione in cui si ha netta la percezione che non verrà un giorno nuovo. Di fronte al pensiero che sarà sempre così come è oggi, alla rabbia di sentirsi imprigionate in una situazione che oggettivamente facciamo solo fatica a gestire ma che soggettivamente ci fa sentire completamente impotenti e lontanissime dal nostro modello materno, di fronte al fatto che ci sembra di non esistere più, scatta l'istinto di sopravvivenza che cerca una via di uscita e senti dentro di te quella voce che dice: o lui o io.
E allora cerchi il distacco; lo lasci piangere senza precipitarti: sto mangiando, quando ho finito, vengo... ora mi pettino e poi ti cambio...
E allora la finestra aperta fa paura - stai lontana dalla finestra, lontana... - anche per quello che abbiamo sentito che altre madri hanno fatto e che, a detta di chi stava loro intorno, erano “normali”; paura che a un certo punto scatti dentro di noi la follia perché ci si sente in balia della situazione e ci sembra di non essere più padrone di noi stesse e dei nostri sentimenti. La finestra aperta fa paura
- e se capitasse a me?

La finestra aperta non è il pensiero dell'omicidio, ma la paura del pensiero dell'omicidio, la paura di perdere il controllo e di cercare un distacco definitivo, una via d'uscita estrema. Una paura più che normale.

2 - L'URLO

G., mamma
I primi tre, sei mesi della vita di un bambino. Lui piano piano cerca di dare un nome alle cose, chi si occupa di lui cerca di decifrare questo misterioso e variabile linguaggio. Prima che appunto si trasformi in comunicazione, il pianto del bambino è una cosa unica: l'urlo. Che può voler dire (in ordine di tentativi): ho fame, ho mal di pancia, sono sporco, sono stanco, sono annoiato, tu non mi guardi, la zia non mi piace, ho freddo, ho caldo, c'ho un disagio, ma non l'ho catalogato ancora, salvami! E se il piccolino definisce sempre più chiaramente questi stati, la madre prima di decifrarli (o di provarci) ci mette un po'. E allora c'è un'unica cosa che riempie la sua vita di vivo terrore: l'urlo. Perchè si fa di tutto per evitarlo, per anticiparlo, si allatta a richiesta, si cambia ogni ora, si cerca di creare dei riti, delle abitudini rassicuranti, ma nonostante questo... il pianto dei bambini ti sega i nervi, il pianto disperato, prepotente, richiedente, prolungato, senza sosta è il modo che la natura ha scelto per rendere impossibile non curarsi di quell'alieno che è uscito dalla tua pancia e che tu sai che tu dovresti semplicemente amare. Ma sei impotente. Le hai provate tutte. Hai camminato con lui in braccio, sussurrato nenie, pianto, urlato anche tu, fatto le boccacce, l'hai cambiato tre volte di fila da capo a piedi, fatto troppo, troppo poco. Non basta, non serve, non sai cosa fare, non vi capite e quest'attimo, quest'istante non finirà mai, non finirà mai, è notte e non verrà un giorno nuovo, o tu o lui, o forse nessuno dei due… ecco.

Stai lontana dalla finestra, lontana.
Sei sola, sola, sola. In questo appartamento con muri che sembrano fossati invalicabili, come sei conciata non puoi uscire, e poi tu non vuoi uscire, ma forse lui sì, ma tu vorresti dormire, o farti la doccia, o smettere di allattare, almeno un secondo, e fa caldo e la finestra è aperta. E tu non fai quel pensiero, ma lo senti, senti di nuovo quel: o lui o me. Io non ce la faccio. Io non ce la farò mai. Poi torni lucida in un momento, chiudi la finestra, ti allontani, ti siedi.
E poi lui si addormenta, o ride, o squilla il telefono. E l'istante infinito finisce.

Ma ti resta il sospetto di quel pensiero mostruoso, di quella che è una evidente negazione della possibilità di essere una buona madre, tu lo odiavi quell'esserino che stai sbaciucchiando, tu te ne volevi disfare, volevi solo che finisse lo strazio.
Tutto questo lo pensi da sola, nella tua bella casetta. Dove nessuno si preoccupa di quello che provoca il pianto del bambino, perchè se non sei sola è diverso, lo stesso non si trovano soluzioni, ma non ti parte la vena di follia.
Poi perché, ammettiamolo, non hai nessun pudore, ti capita di parlarne con altre mamme, e se sono sincere ti dicono che quella sensazione l’hanno sfiorata anche loro, che anche loro hanno chiuso la finestra, e che per un po' con in braccio un bambino urlante non ci si avvicineranno. E non sei più un mostro, sei solo normale.

Perchè è normale non poterne più, ed è normale fermarsi. Occhei, non lo so se tutte hanno solo desiderato che il bambino sparisse, ma so che nel caso si sia pensato è molto meglio ammetterlo, e parlarne con qualcuno. L'importante è non agire il pensiero. E non essere sole. Perchè siamo animali sociali, e la tribù ci manca, e tutti ci hanno accudito per nove mesi, e poi nato il bambino si sono dileguati, e prendersi cura di lui, e prendersi cura (almeno un pochino) di te stessa diventano priorità inconciliabili. E poi c'è 'sto mito della maternità fatto tutto di amore e nuvolette rosa, e camerette linde, e tu non sei così, tu sei latte sulle magliette, capelli sporchi e l'urlo. E questa non era l'idea che ti eri fatta, e sei delusa dall'idea e da te stessa.

E poi, così d'un tratto lo guardi mentre ciuccia e lo ami, e sai che la finestra la puoi anche riaprire.

E, a un certo punto, passa del tempo, e miracolosamente vi capite.

A quel punto spuntano i denti.

3 - LUNEDI' ALLA CASA DI MATERNITA'


Le operatrici della Via Lattea
Sono le 9.30 del lunedì mattina e chiunque degli operatori arrivi per primo in Casa di maternità, compie un gesto rituale e importante: l’ascolto della segreteria telefonica.
Uno, tre, a volte cinque messaggi, lasciati sapendo che verranno ascoltati e sistemati al più presto:
- “Credo di non avere più latte perché la bimba urla sempre….”
- “Domenica terribile, più gattona e più va dove vuole! Non ne posso più! Vi richiamo più tardi”
Il week-end spesso manda in crisi e più di quanto si possa pensare.

Alle 13.00 termina il gruppo delle mamme e neonati del primo trimestre con l’apertura delle porte che per due ore hanno contenuto, con riservatezza, sentimenti tumultuosi di gioia e rabbia, grandi risorse energetiche ma anche momenti di enormi stanchezze, bisogno di certezze ma anche voglia di uscire dagli schemi; tutto ciò condiviso con altre compagne di “avventura” o di “sventura” secondo la prospettiva, parole dette con il timore del giudizio altrui e la paura dell’inconfessabilità di certi pensieri.
Durante gli incontri una certezza che pian piano si fa strada: l’accoglienza e il sostegno per sé e per il proprio bambino, faticosamente e meravigliosamente insieme. Quante ambivalenze, quanti lati di un’unica medaglia; la scoperta che dopo il parto si ripresentano le stesse sensazioni altalenanti della gravidanza perché è ancora alto il livello di ormoni.
Coliche, pianto, sonno; sonno, coliche, pianto. L’ordine cambia ma il risultato è lo stesso: lo sfinimento e la paura di superare il limite con il proprio bimbo, a casa, tra le pareti domestiche.
Nel gruppo sembra tutto più facile: ma perché i bimbi piangono di meno? È il lasciar fluire liberamente le emozioni?

Alle 15.00 termina il gruppo delle mamme con i bimbi tra i quattro e i dodici mesi: ci sono meno ormoni in circolo ma aumentano le sensazioni, le mamme hanno imparato ad aspettare, ad avere più pazienza, spesso si dicono “Tanto prima o poi passerà”. L’allattamento è una risorsa preziosa e ben avviata, il bambino è cresciuto è diventato così bello e sa fare un sacco di cose, ma c’è lo svezzamento da affrontare, i risvegli notturni incontrollabili, le prime malattie, le vaccinazioni, l’esigenza di avere spazi per sé ma la paura, a volte l’incapacità di lasciarlo.
Lasciarlo? A chi? Alla nonna? Mamma o suocera, differenza lacerante... Cercare una tata o un nido. Lui/lei che vuole la mamma e solo la mamma e non sta più neppure con il papà. Già, il papà, il rapporto di coppia… Rapporto? Oddio, sono una donna, siamo un uomo e una donna. Non vorrà mica…
Davanti al cestino dei tesori, nella stanza sempre uguale, sorseggiando una tisana mentre i bimbi giocano, gattonano, vengono allattati, cambiati, consolati, il rituale si ripete e come ogni rituale contiene, aiuta e dà sicurezza per andare avanti.

Oggi ci sono stati anche due gruppi in gravidanza, il corso serale del 2° trimestre alle 18.00 e il gruppo di preparazione alla nascita alle 10.30.
Nel secondo trimestre molte donne vivono come uno stato di grazia dovuto alla sensazioni di pienezza, di benessere; in questa condizione in cui le funzioni sensoriali sono acuite a volte si aprono porte che in seguito si chiuderanno per sempre. Le paure ci sono ma sono latenti.
Dalle sensazioni di contenimento del piccolo scaturiscono sensazioni di esaltazione della femminilità: creatività, nuove capacità culinarie, decorative, matematiche o poetiche possono stupire la donna stessa e chi le sta accanto.
Avvicinandosi alla realtà della maternità dell’ultimo trimestre la futura mamma ridiscende sulla terra, le angosce improvvisamente si attualizzano. Riaffiora l’ambivalenza verso il bambino che viene percepito come altro da sé; difficoltà nel percepire il distacco che avverrà oppure volontà di staccarsi prima e voler recuperare il proprio spazio. All’aumentare delle sensazioni di paura e angoscia è legata la difficoltà di poterne parlare con “il mondo”; il mondo familiare, il mondo medico o quello sociale, che possono essere tollerati solo da gente forte e sicura di sé. L’attitudine al rimprovero che viene attuata nei confronti delle neofamiglie, per tutta una serie di limiti del tutto normali, condanna chiunque non sia perfetto. La società ha aumentato la tendenza alla classificazione e alla etichettatura che inconsciamente comunica disapprovazione (l’effetto Rosenthal); a questo punto nella donna e nella coppia aumentano i timori che si trasformano in adeguamento a questa immagine, nascondendo le vere forze reali...
Per fortuna le donne tra di loro hanno bisogno di poche parole per dirsi che capiscono, che comprendono e che vivono la stessa esperienza; lo capiscono anche i bambini, che nei gruppi stanno e fanno stare meglio.
La solitudine lavora senza sosta e anche noi della Casa di maternità lavoriamo senza sosta per renderla accettabile: quasi sempre reperibili, quasi sempre disponibili…

Il lunedì è terminato e la Casa si spegne in attesa di una nuova giornata.

4 - MI HAI DEVASTATO


S. C., mamma
I figli non arrivano mai per caso e nemmeno si cercano; le loro anime bussano alla porta del tuo cuore, tu puoi solo scegliere di aprire o meno quella porta. E ogni essere che arriva, arriva proprio per te e per nessun altro. È così che un figlio arriva con il suo progetto di vita, con i suoi obiettivi e i suoi scopi, e subito comincia a lavorarti dentro. Tu improvvisamente cambi. Non sei più tu. Sei tu con dentro lui. Lui che ti scava nella mente, ti sviscera i pensieri, ti sbatte in faccia i tuoi dilemmi e ti costringe a riesumare i tuoi dolori rimossi. Nulla è più come prima. Ti cresce dentro, e insieme al corpo ti manipola l’anima e la mente. I suoi pensieri si intrecciano con i tuoi, i suoi sogni e i suoi desideri prendono il posto dei tuoi. Persino i tuoi gusti cambiano, il tuo colore preferito, le tue musiche. Ti ritrovi a lottare con te stessa, a vivere divisa tra serena accettazione e forte intolleranza alla gravidanza.
Tu com’eri prima non esisti più, sei cancellata. Devi cambiare, devi rinascere. È un lavoro faticoso, ma necessario. Chi prima, chi dopo, chi lentamente, chi all’improvviso, prima o poi si deve fare i conti con questo figlio e con il proprio diventare madre. Mio figlio mi ha proprio messo alla prova!
Lui, con il suo spirito forte, intelligente, consapevole ed estremamente terreno, mi ha letteralmente devastato. Mi ha ribaltato dalla testa ai piedi, mi ha costretto a vomitare la mia stessa anima, mi ha bloccato l’esistenza, ha brutalmente modificato il mio rapporto di coppia ed infine ha scelto per noi un parto in ospedale ed un post-parto difficile.
Mi ha letteralmente trascinato a terra. Io, infatti, mi sono sempre creata un mondo alternativo dove vivere, lontano dalla dolorosa realtà della mia famiglia, in un mondo fatto di sogni e fantasie, in un contesto da favola stile Cenerentola, dove il mio Principe Azzurro mi avrebbe condotto lontano dall’angoscia, circondata d’affetto e da mille attenzioni.
La favola è durata solo tre mesi. Samuel ha bussato presto alla mia porta e subito è stato accolto. Ma eccomi di colpo catapultata nel mondo reale.
Sì, mio figlio mi ha insegnato a vivere con i piedi per terra, mi ha sbattuto violentemente contro l’elemento terra e mi ha insegnato in un attimo ciò che in anni di meditazione ho sempre faticato a raggiungere: il vivere qui ed ora.
Ha smantellato ogni benché minima traccia di poesia dalla mia gravidanza, tanto idealizzata ed immaginata in anni di formazione come “educatrice prenatale”. Ha fatto traballare pericolosamente la relazione d’amore con il mio Principe Azzurro e me ne ha finalmente mostrato il suo normale “lato oscuro”, ed infine mi ha spinto a cedere nelle mie convinzioni di un parto in casa. Tutto ha remato contro quell’idea tanto desiderata: il “casuale” trasloco della Casa di maternità e la difficoltà di reperire un’ostetrica disponibile nei giorni di Natale. Samuel ha sacrificato la sua possibilità di avere per sé una nascita serena per dare a me la lezione più forte della mia vita. Parto in ospedale, ostetrica direttiva e terribilmente svalutante (sembrava mia madre), continue interferenze e imposizioni, rottura delle membrane, monitoraggi sfiancanti, visite dolorose e inopportune, ed infine, peggio che mai, ciò che ho sempre temuto… la “violenza” dell’episiotomia.
Nulla era come lo avevo immaginato!
Eppure Samuel ha voluto concederci un’opportunità di recupero. Ha fatto una cosa che ha salvato tutte e tre dal baratro della depressione: ci ha guardato. Intensamente, a lungo, con la saggia consapevolezza di un’anima appena incarnata. E quello sguardo ha curato tutte le ferite. Quello sguardo ci ha costituito per la prima volta come una vera famiglia e ci ha colmato di gioia, felicità e di un amore così grande da superare ogni difficoltà.
Se Dio non ci avesse concesso quegli attimi, quel tempo e quello spazio appena dopo la nascita, non credo che sarei mai riuscita a superare le difficoltà che sono venute dopo.
Il mio percorso di crescita, infatti, non era ancora finito, e le prove sono continuate. Il dolore intenso, forse più emotivo che fisico, dell’episiotomia ha nuovamente allontanato me ed il mio Principe Azzurro per mesi. E questa forse è stata la prova più dura. Vedere il tuo corpo lacerato, sfinito dal vomito incoercibile di nove mesi, il tuo seno distrutto dalle ragadi che ricopre il corpo di lui di perdite di latte… assolutamente poco sexy. Be’, sicuramente è stato un duro colpo per noi.
Ed è forse lì che è cominciato a comparire il mio “baule delle cose brutte”. Un baule dove rinchiudere la gelosia che ti devasta l’anima, il sospetto del tradimento, la rabbia contro la sua indifferenza e la sua freddezza, il senso di abbandono, la fatica di fare tutto da sola, il dolore delle continue cattive critiche di tua madre, l’odio verso l’ostetrica più stronza del mondo, l’estrema stanchezza per l’accudimento di un bimbo di molte richieste. Raramente usciva qualcosa da questo contenitore. Forse spesso ha ribollio per il troppo pieno, ma il mio desiderio di felicità lo ha sempre fatto tacere.
Per fortuna il tempo aiuta.
Samuel è un bambino complesso, molto consapevole ed estremamente sensibile. È intelligente, perfezionista e tanto tanto testardo. Non è facile stare con lui. È un capricorno, e il suo elemento terra si scontra duramente con il mio elemento acqua (sono un cancro). Ma insieme ci siamo insegnati tante cose. Siamo cresciuti. Io sono diventata mamma. Samuel si è scontrato con il suo “bisogno di mamma” e ha lottato molto per trovare il suo equilibrio. Ora ha cinque anni ed è diventato improvvisamente grande. Io e Christian ci siamo lentamente ritrovati, come coppia, come amanti, e la passione e l’amore sono nuovamente tornati. Certo il baule è ancora lì, ancora piuttosto pieno. Ma ci ha pensato Nicole a svuotarlo un pochino.
Dopo quasi cinque anni dalla nascita di Samuel ha bussato alla porta del mio cuore una bimba. È la mia bambina, il mio riscatto. Dio mi ha riconosciuto la necessità di una compensazione, di una piccola rivincita.
Nicole è più simile a me. Non mi ha devastato l’anima e il corpo, forse perché molti cambiamenti li avevo già fatti ed è stato più facile accoglierla. Ed è così che ha scelto per noi una gravidanza meno problematica ed un bellissimo parto in casa.
Questa volta tutto è andato come volevo, persino i colori sono stati gli stessi sognati tanti anni fa. L’emozione è ancora forte e mi toglie il fiato.
Eppure quando Paola mi ha chiesto di aprire quel baule per far partire un travaglio che non voleva cominciare, di cose ne sono emerse ancora! Ancora una volta sono emerse la tristezza per una gravidanza poco condivisa come coppia, la fatica a considerare presente questa bambina, la paura persino che il solo fatto di nominarla potesse far riemergere tutto il dolore dell’esperienza passata.
Ma il vero lato oscuro di questa maternità è un altro. Questa volta l’esperienza provata è stata così bella, così serena e meravigliosamente naturale, che ogni volta che ci ripenso mi sento quasi male. È incredibile ma non ho mai provato “dolore” per un’emozione positiva, così bella da essere forse troppo per me. È un’emozione che mi lascia senza parole, come se il mio cuore si fosse fermato in quel momento e la mia mente si fosse fissata in quella scena per sempre.
Faccio fatica a distogliermi dalla scena del mio parto. Ogni volta che vado a letto, in camera mia, dove è nata Nicole, ripenso a quei momenti e il pensiero corre indietro a tutto il percorso nascita, al corso preparto, alle mie fantastiche compagne di avventura, alle “visite” con Paola e Ilaria e ripenso alle giornate del dopo parto, con le visite a domicilio delle mie personalissime ostetriche… e quasi non riesco più a dormire per l’emozione.
Ho sempre sofferto di fronte ai momenti di distacco, fin dalla mia stessa nascita; anche stavolta mi trovo davanti ad uno stupido senso di abbandono nei confronti delle mie ostetriche. Sono terribilmente gelosa di loro, di sapere che stanno seguendo altre mamme, altri incontri preparto, altre visite a casa, altre nascite!
Questo pensiero stava diventando un’ossessione, un retroscena imprevedibile del mio percorso nascita. Per fortuna, come in tutte le cose, il tempo mi sta aiutando. A due mesi dalla sua nascita ci pensa Nicole a staccarmi da questo pensiero opprimente: lei che con i suoi richiami, i suoi primi sorrisi, i suoi occhioni dolci mi sussurra ogni giorno il suo amore per la vita e per me, riportandomi così ancora una volta con i piedi per terra, alla realtà del qui ed ora.
Realtà forse meno emozionante di un parto, ma altrettanto bella. Faticosa certo, ma fatta di tante piccole emozioni, da tanti piccoli passetti che ci spingono ad andare avanti, a crescere, come madre e come figlia, e che ci inducono, ancora una volta, a perseguire i nostri più profondi progetti di vita!

5 - SONO A PEZZI


A. C., mamma
Sono a pezzi.
È l’unica cosa che dico quando mi chiedono come sto.
Sono a pezzi.
Sono dieci mesi, quasi un anno, che non faccio una sana dormita.
Prima, quando lei era ancora nella pancia, perché era sempre agitata, anche di notte e non mi faceva dormire. Puntualmente, tra le tre e le quattro, arrivavano i calci.
Tutte le notti!
Poi, i primi cinque mesi, si svegliava due, tre volte per mangiare. Fortunatamente ero comoda,
avevo il mio latte.
Adesso che ha otto mesi ci sono i dentini che fanno male.
Ma anche un mese fa si svegliava almeno due volte.
Sempre tra le due e le quattro. Sempre interrompendo il mio sonno.
Sono a pezzi.
Ma ultimamente sono più serena perché so, spero, che finirà. Presto.
Tutti ti danno consigli più o meno utili. Ma nessuno capisce, solo chi ha vissuto lo stesso incubo.
Ho passato tante notti facendo leva sulla mia forza per non cadere nell’isterismo più nero. Notti in cui, per una frazione di secondo, ho capito cosa passa nella testa di quelle madri sciagurate che fanno male ai loro figli.
E ti senti sola.
Con lei che strilla e non sai cosa fare. È pulita. Ha bevuto. Ha mangiato. Ha sonno ma non riesce a riaddormentarsi.
Vuole stare solo in braccio e devi camminare per la stanza cullandola tra le braccia.
E tuo marito russa beatamente nell’altra camera. Non capisce o non vuole capire quanta stanchezza hai accumulato in questi mesi. Lui lavora. Anche io lavoro, ma questo sembra avere meno importanza.
Allora guardo lei, così bella, così fragile, così piccola e indifesa.
Darei la vita per lei.
Poi finalmente si addormenta, il mio angelo, il mio tesoro,
il mio amore. Mia figlia.

6 - UN MARSUPIO PER AMICO


F. B., mamma
Quando Paola mi ha proposto di riportare la mia testimonianza riguardo al “lato oscuro della maternità” sono rimasta perplessa.
Il lato oscuro? Ma quale lato oscuro? Il mio bimbo di ormai quasi tre anni è dolcissimo, sereno, affettuoso, semplicemente meraviglioso e mi riempie la vita di un amore del tutto nuovo, ma talmente intenso ed appagante che non credevo di poter essere capace di provare. Io proprio non lo vedo questo lato oscuro.
E poi ecco un flash.
Come un lampo dal passato, che avevo ormai seppellito nella memoria dei tempi (lo so, sono soltanto tre anni che Matteo è nato, ma si sa che i primi tre anni da mamma valgono una vita).
Oddio, forse non è proprio stato tutto rose e fiori, soprattutto all’inizio…

Matteo è nato dopo un normalissimo, seppur faticosissimo, travaglio durato dodici ore. Appena ho partorito ho pensato: ok, il peggio è passato. Adesso non mi rimane che godermi questo meraviglioso cucciolo che è entrato a far parte della mia vita.
Dopo dodici ore dalla sua nascita ho lasciato Casa di Maternità per tornare nel nostro nido. Ero piena di entusiasmo, per la novità, per la meravigliosa giornata appena trascorsa, per tutte le deliziose aspettative che mi riempivano la testa.
Prima notte, tutto ok. Mio marito Fabio si addormenta stremato, il piccolo Matteo è tranquillo, io sono felice…eppure non riesco a chiudere occhio perché ho il timore che nel sonno possa capitargli qualcosa. Cerco di tranquillizzarmi ma niente da fare. È come se dovessi vegliarlo perché è così piccolo ed indifeso e la sua vita mi pare appesa ad un filo. Sono l’unica a tenerlo ancorato a questo mondo!
Rimango sveglia. La mattina dopo mi sento stanca, ma non me ne preoccupo: è tutto ok, devo solo digerire l’enorme cambiamento che mi ha investita nelle ultime ore.
In tarda mattinata Fabio riceve una telefonata dall’ufficio. Un’emergenza, deve andare. Che fare? Vorrei dirgli di rimanere, ma non posso. Lui lavora in proprio e non può permettersi troppi casini sul lavoro, contando poi che il suo è l’unico stipendio su cui possiamo contare; poi in fin dei conti sta per arrivare mia madre, non rimango mica da sola…
Mia madre in effetti arriva, ma rimane soltanto un paio d’ore perché poi deve tornare al lavoro pure lei. Ma niente paura, adesso è in arrivo mia suocera e presto arriverà anche Nadia per la visita, non rimango mai sola…
Eppure qualcosa non mi torna, tutto questo andirivieni di gente mi confonde, mi disorienta: non c’è nessuno che mi rimanga accanto per più di pochi attimi. La situazione si stabilizza così per giorni e giorni. Gente che arriva, gente che parte… soltanto io rimango, come una reclusa, ad occuparmi di questo piccolo neonato che mi sembra incomprensibile: che vuole da me? E mai possibile che nulla gli basti? Si attacca al seno ogni ora, tanto che i miei capezzoli, la cui epidermide è particolarmente delicata, si sgretolano sotto le sue gengive e sanguinano e mi fanno vedere le stelle. Non appena finisce di mangiare fa la cacca e bisogna cambiarlo da capo a piedi e poi crolla in un sonno profondo a cui io non riesco proprio ad adeguarmi. Sono stremata, eppure ci metto molto tempo ad assopirmi e non appena ci riesco lui si sveglia di nuovo e ricomincia tutto! E come se non bastasse la mia montata è incontenibile tanto che i miei seni sembrano fontane. Meglio - direte voi - si sente sempre di mamme che non hanno abbastanza latte o temono di non averne, di che ti puoi lamentare? Eppure io me ne lamento, eccome! Sono sempre fradicia, non c’è coppetta assorbilatte che tenga, eppure siamo solo in marzo e fa freddo e poi avere perennemente addosso quell’odore dolciastro mi nausea.
Gli ormoni non mi aiutano, sono depressa, affranta, privata di me stessa.
Io, che fino a pochi mesi prima ero una studentessa che trascorreva la sua giornata sui libri, a contatto con ambienti stimolanti, adesso sono uno zombie che si aggira per casa incapace di provvedere alle normali necessità quali mangiare e dormire regolarmente, una specie di dolorante mucca da latte.
Nadia e Paola mi ripetono che passerà, ma quando?
Quanto tempo ancora?
Finirà?
Riavrò la mia vita?
Smetterò di piangere e di sentirmi come uno zerbino?
Dopo circa venti giorni da incubo, una mattina decido che non ne posso più e che, sebbene io abbia terribili occhiaie e i capelli sporchi e i vestiti che sanno di rigurgitino e di latte materno, ho voglia di uscire. La primavera sta sbocciando e voglio proprio prendere un respiro lungo. Sistemo Matteo nel marsupio, per la prima volta, ed esco.
E da quel momento tutto cambia. Guardo il mio bambino, che è più bello di quel magnifico sole di primavera, e le signore che ci sorridono intenerite alla vista di quella dolce creatura che si è appena affacciata alla vita ed improvvisamente mi sembra che niente sia poi così faticoso. Sì, il seno fa ancora male e poi tutto quel latte mi infradicia ancora nei momenti meno opportuni, e fatico ancora ad abbandonarmi al sonno per paura che gli capiti qualcosa, ma adesso siamo qui io e lui, finalmente! E so, con certezza, che questi momenti così intensi li rievocherò tutta la vita.
Certo, dopo quel giorno le difficoltà non si sono dissolte come neve al sole, ma è stato l’inizio della fine. O meglio l’inizio dell’inizio di questa meravigliosa avventura che è la vita con il mio bimbo meraviglioso.
In passato mi sono domandata che senso avesse avuto tutto quel dolore e quella fatica. E mi sono risposta che non c’è nulla di bello che non debba essere conquistato, ma che ne vale sempre la pena.
Mentre scrivo, Sara, mia figlia, un feto di sei mesi, scalcia allegramente nella mia pancia.
Non ho dubbi, sono felice di andare incontro a nuovi dolori e a nuove fatiche perché, come dice anche la pubblicità, non c’è migliore avventura che avere figli.
Non so come sarà questa volta, ma una consapevolezza l’ho ormai maturata.
Tutto passa. Sempre.

7 - E SE CAPITASSE ANCHE A ME ?


L. F., mamma
Mentre aspettavo Edoardo, e in realtà anche prima di restare incinta, ero terrorizzata ogni volta che leggevo o ascoltavo in TV la terribile cronaca di mamme impazzite che ammazzano le proprie creature. Il terrore provato derivava dal sentirmi minacciata da un sentimento tanto brutto. Mi dicevo:sembra tanto inconcepibile eppure è possibile che un corto circuito del cervello produca un fatto tanto atroce e se capitasse anche a me? In fondo chi sono io per dichiararmi immune da una forma depressiva di questo genere?
La mia gravidanza è stata bella, gioiosa e piena di salute, salvo piccoli fastidi nell’ultimo bimestre. Avevo promesso a me stessa che avrei vigilato sul mio umore nei mesi successivi al parto e avevo chiesto a mio marito di fare altrettanto. Il momento tanto atteso è arrivato e non è stato quello che mi aspettavo. Edoardo è nato con un cesareo d’urgenza, purtroppo! È un bambino sano e bello ma io nei primi tempi non riuscivo a gioirne. I miei pensieri erano rimasti fermi e intrappolati a quella notte di travaglio conclusasi in sala operatoria. Avevo bisogno di una spiegazione che nessuno ha saputo darmi. Mi sentivo ripetere soltanto “Non è colpa di nessuno, può capitare”. Quindi dovevo arrendermi alla sfiga! Forse se fossi riuscita a liberarmi in fretta da questi pensieri avrei avuto meno problemi con l’allattamento chissà! Certo è che i primi mesi sono stati durissimi. Dovevo accettare quanto successo, dovevo riprendermi nel corpo e nello spirito e volevo a tutti i costi allattare al seno il mio bambino. Per fortuna mi sono imbattuta nella Casa di maternità quando Edoardo aveva circa quaranta giorni di vita e così è iniziato un percorso che mi ha permesso di riprendere fiducia nella vita e la serenità di cui ogni mamma ha bisogno per sentirsi confortata nel lavoro quotidiano che compie. Con la mia esperienza non voglio dire che senza l’indispensabile supporto della Casa di maternità sarei stata certamente una mamma depressa potenzialmente pericolosa per mio figlio, ma che il lato oscuro della maternità esiste ed è bene esserne consapevoli per esorcizzarlo. Diventare madre è un’esperienza talmente forte da evocare emozioni sia positive che negative. Le negative vanno accolte ed esternate, così non faranno alcun male ma ci renderanno solo più forti e sicure.
Comunque una domanda continuo a farmela: come sarebbe andata se avessi conosciuto prima questo luogo meraviglioso e avessi deciso di partorirci? Pazienza, il prossimo magari nasce all’ospedale, ma con uno dei miei “angeli custodi” al seguito.

8 - SOFFOCO


B. D., mamma
Per quel che riguarda i lati oscuri della maternità, che dire? All'inizio ti senti semplicemente soffocare. Non sempre… quando l'attacchi al seno ti viene anche da urlare e/o piangere - le prime settimane fa malissimo! E se consideri che Bianca era sempre attaccata... Ma il dolore poi passa (i capezzoli ora sono a prova di piercing) mentre il senso di soffocamento ti accompagna per un po'. Quando Domenico tornava dal lavoro e gli chiedevo di tenerla perchè ero stanca mi son sentita più volte rispondere che ero io quella a casa in maternità (col prossimo ci sta lui, così vede) e che se avesse avuto la tetta l'avrebbe tenuta volentieri tutto il giorno... (sempre per il prossimo figlio gli regalerò quei dispositivi per l'allattamento artificiale che consentono anche di stimolare il seno, come si chiamano?). Io desideravo solo fare la pipì da sola, farmi una doccia e magari mangiare qualcosa. Troppe pretese? È inutile, non capiscono. Non capiscono cosa voglia dire "sentirsi soffocare", non avere più la libertà di scegliere quando mangiare o lavarsi, compiere le azioni più elementari. Ma anche questo si è risolto nei primi mesi. Dopo sono diventata mamma, stop. Una mamma libera! E talvolta faccio ancora doccia e pipì in compagnia, ma non ho la fretta di prima e soprattutto non mi sento più soffocare (Bianca ha ventun mesi).

Un altro lato oscuro, per me, è stato il cambiamento del rapporto di coppia. Come se non fossi preparata! Lo dico sempre alle coppie che fanno i corsi di accompagnamento alla nascita da noi in associazione ( L'acchiappasogni, Parma ), ma viverlo è diverso. Non si è più coppia, si diventa una famiglia e per tutto il primo anno Bianca é stata la mia priorità, su tutto e tutti. Domenico diceva che ero una bravissima mamma ma come moglie… lasciamo perdere.
Il rapporto di coppia che cambia: all'inizio avevo occhi (e corpo) solo per Bianca; non che sia mai stata particolarmente attenta e prodiga nei confronti di Domenico(si è sempre arrangiato molto, soprattutto in cucina) ma dopo il parto sono anche peggiorata. Effettivamente l'ho un po' trascurato, soprattutto non avevo voglia di parlare di noi anche perchè si finiva sempre col discutere, e inutilmente. Così ci siamo un po' trascinati, in certi momenti ho pensato che stessimo "scoppiando"… Ma non è successo e col nuovo anno siamo partiti più carichi di prima. Da quando sono rientrata al lavoro inoltre mi sono dovuta inevitabilmente staccare da Bianca e il rapporto tra lei e Domenico ne ha sicuramente beneficiato. Per lui è molto gratificante riuscire ad occuparsi di lei in toto, devo ammettere che su tante cose è anche più attento e paziente di me!

Personalmente il periodo più difficile è stato quando, tra ottobre e gennaio 2007, Bianca si è ammalata a ripetizione e anch'io fisicamente e psicologicamente ero a pezzi.
Difficile gestirla, difficile interpretarla, difficile scegliere cosa fosse meglio e difficilissimo fare tutto questo in sintonia con mio marito. Lui più razionale e pratico, desideroso di risposte sicure, magari del pediatra; io istintiva come sempre e poco incline a "fare come dice il pediatra", non per partito preso (non solo, per lo meno). E poi si è dormito molto, molto poco! E quando si dorme poco tutto è più difficile.

Qualche difficoltà l'ho avuta anche con lo svezzamento, qualche frustrazione quando non mangiava le pappe bio che avevo amorevolmente preparato solo per lei mettendoci un sacco di tempo, andando come sempre contro il parere del pediatra che mi consigliava omogeneizzati e cremine precotte. Quando un bambino non mangia tutti vanno in crisi, nonna, papà… e la colpa è solo tua che vuoi fare così,"che sei testona", "e tua cognata ha fatto diversamente e infatti i tuoi nipoti mangiavano tutto e da subito", "e la colpa è anche della tetta, che dovevi togliere mesi fa!".
Non vado oltre. Adesso, che da un bel po' non si ammala (grazie anche a un bel trattamento di rinforzo del sistema immunitario su consiglio del nuovo pediatra omeopata), mangia come un maialino, da sola, di tutto (bio e non bio) e quando non mangia non andiamo più in crisi perchè ha messo le sue belle riserve.
E soprattutto prende ancora la tetta, quando vuole, e nessuno mi dice più niente perchè lo fulmino solo con lo sguardo!

9 - FUORI DAI DENTI


A. M., mamma
Il lato oscuro della maternità?
È – sembra strano – che la vostra paternità non ci fa sentire meno sole.
Avremmo bisogno di essere sostenute, se non portate in braccio: ma voi non ci siete.
Se c’è un problema, vero o falso, dobbiamo farci carico anche della vostra ansia e del classico dito puntato che serve a scaricarvi la coscienza e a sentirvi immuni da qualsiasi responsabilità (soprattutto quella di non esserci stati accanto al momento giusto).
Bella lì! Dopo che tutto il mio essere si è prostrato davanti al frutto del nostro amore (e non dell’incontro dei nostri genitali!) tra latte, cacche, pipì e veglie notturne, mi è capitato di sentirti pronunciare parole folli: per una calo di latte, che volevo risolvere senza l’aiuto di quella bianca poverina che miracolosamente, con un po’ di acqua, riempie il biberon, hai detto.
- “Tu me lo vuoi far morir di fame!”
Forse se avessi fatto muro con me, invece di farmi il muro, avremmo potuto valutare insieme che la pelle morbida e idratata, lo sguardo vivace e attento tutto dicevano tranne che una morte imminente! E forse non avrei ingannato la pediatra e te, fedele suo seguace, mettendo in quel biberon di acqua uno soltanto dei prescritti misurini, giusto per dare un poco di colore!

PS - Grazie alla bugia dell’acqua colorata e alla mia ostinata perseveranza, il frutto dell’amore è stato poi allattato fino ai sedici mesi!

10 - UNA GRAN TERAPIA


G., mamma
Ogni volta che succede, poi chiedo perdono a Dio per il mio assurdo ed incomprensibile comportamento e per non essere la mamma che avrei tanto voluto essere. Invece è a te che devo chiedere perdono, a te che sei così piccola, così indifesa, a te che non fai nulla di male, se non ciò che fanno e che chiedono tutti i bambini. Ma com’è possibile, mi chiedo, che la creatura che più amo al mondo, quella per cui darei la mia vita, sia la stessa creatura che fa scatenare questa reazione, che mi trasforma in un essere che non conoscevo e che mi spaventa tanto? Perchè mi trasformo in questo modo? A volte mi sento una sorta di Dott. Jekyll e Mr Hyde! E poi, dopo che la “trasformazione” è passata, cerco di guardarmi dal di fuori e di rivedermi in quello stato e mi vergogno terribilmente. Per fortuna, tu ancora non ti rendi conto (forse) della rabbia che si impossessa di me, quella rabbia che nasce dal profondo, che evidentemente arriva da pensieri tenuti troppo dentro, da necessità mai svelate, dall’orgoglio che non permette di chiedere mai aiuto, dalla stanchezza, dalla mancanza di sonno, dalle giornate e dalle notti troppo lunghe senza l’aiuto di nessuno, dal fatto che credevo di farcela anche da sola e che invece non riesco ad ammettere che da soli è davvero dura...
Ma se mi vedesse qualcuno quando mi trasformo? Chissà cosa penserebbero di me? Magari, con aria molto preoccupata per le sorti della mia bambina, mi consiglierebbero di farmi vedere da qualche specialista…
Ma che specialista? Bisognerebbe solo avere il coraggio di ammettere, di sputare il rospo, di chiedere e di trovare un po’ di tempo per me. Un’ora di tranquilla passeggiata per negozi, magari il parrucchiere ogni tanto, una serata al cinema, solo una di queste cose, sarebbe una gran terapia, altro che specialista!
Se è vero che i bambini sono piccoli una volta sola, so che un giorno rimpiangerò tutto delle tua infanzia, anche i momenti più difficili e allora mi farà ancora più male pensare che tante volte ho ceduto e dato libero sfogo alla rabbia proprio davanti ai tuoi occhi, buttando via in malo modo del tempo che invece doveva essere prezioso per cose di certo migliori.
Sto facendo del mio meglio per non ripetere o almeno ridurre al minimo questi momenti, tu non meriti una mamma arrabbiata, una mamma cattiva. Sei un tesoro, il mio tesoro, devo farti stare bene, devi vivere il tuo mondo di cucciolo, che io non ho il diritto di contaminare con le problematiche dei grandi, fatte di poco tempo per fare tutto, fatte di preoccupazioni per non riuscire a portare a termine ciò che invece si dovrebbe, fatte di fretta costante, di stanchezza e di troppo poco tempo da dedicare alle coccole ed ai giochi con i propri cuccioli.
So che non sarà facile, so che ci ricascherò di nuovo, ma ti prego di non pensare mai e poi mai che la mamma non ti vuole bene, la mamma è un essere umano e, come tale, imperfetta e quindi destinata a commettere molti errori…
Ma ricordati sempre che ti amo, ti amo, ti amo!

11 - TU MI CHIEDI TROPPO

Una mamma
Tu mi chiedi troppo
E io mi sento incapace
È stato un momento di follia
Quando ho creduto di poter occuparmi di te
Ho sbagliato tutto
Io non voglio molto
Soltanto dormire la notte
Non voglio più che mi svegli
Non m’importa nulla se stai male, puoi anche morire
Ma lasciami dormire
Sono solo parole
Parole che potrei urlare durante la notte
Quando piangi
Vuoi l’acqua
Vuoi le mie braccia
E ora sai anche dire Mamma
Allora non riesco a far finta di niente
Ma ti detesto lo stesso
Perché non mi fai dormire
E ti devo sollevare e tanto tanto sei pesante
Ti devo cambiare e scappi ridendo
Ti piace giocare
Ma non ho voglia di giocare
Non m’importa nulla
Sei un egoista
A me non ci pensi mai
Vorrei uscire una sera truccata,
con i cappelli sciolti e la bocca che ride
E fregarmene di tornare tardi perché domani
Ci sei tu
E mi chiami alle sette, alle otto, sempre troppo presto
E ti devo cambiare, e ti devo lavare, ti devo vestire
Non c’è tempo ma vuoi giocare col termometro,
butti giù la carta igienica e la strappi in mille pezzi
C’è acqua dappertutto
Sono stanca, e arrabbiata tanto
E tu mi sorridi
E non m’importa nulla
Oggi non ho voglia di essere buona
Non sono la brava mamma di sempre
Sono una strega cattiva
Che mangia i bambini
Li fa cuocere a fuoco lento
E beve il brodo magico per rimanere
eternamente giovane e possente
Ho i cappelli arruffati
La lingua serpente
Dico parole malvagie
Sputo fuoco dalle narici
Non mi farai sciogliere con i tuoi occhi da bambi
Piccolo angioletto, ora dormirò un po’
E dopo andrà tutto bene

12 - SCAMPATO PERICOLO


K.D.S., mamma
Ed ecco che é nato Jacopo! Ed ecco che divento mamma. Ed eccomi piombata nella realtà della maternità…
Pensavo: sì, sarà impegnativo e difficile ma, d’accordo con l’idea della maternità che mi ero costruita, niente sarebbe andato storto.
Quando sono iniziati i problemi con l’allattamento c’era qualcosa che non quadrava nei miei programmi: in quel mondo che avevo costruito non c’era spazio per il tiralatte, per mio figlio che stentava a prendere peso, per il biberon e il latte artificiale.
Il tempo passava e mi rendevo conto che la fatica più grande non era solo accettare tutte queste cose che non avevo previsto, ma soprattutto accettare che la maternità sì, ha a che fare con i momenti belli e appaganti, ma anche con i momenti di frustrazione, scoraggiamento, insicurezza e rabbia.

Un giorno, stanca di stare a casa sentendomi vittima di un’ingiustizia, decisi di guardare un po’ fuori e cominciai a frequentare il corso post-parto della casa di maternità e il consultorio.
Improvvisamente: ops! Non ero da sola! E non solo: conoscevo altre mamme che così come me avevano da piangere, da ridere e da raccontare le loro storie di maternità.
Era strano, ma dopo un po’ non riuscivo neanche più a parlare di tutto quello che mi era successo, come fosse l’unico caso al mondo. Solo condividendo il mio dolore con altre mamme ho potuto alleggerirmi un po’ e cominciare ad accettare il fatto che, al contrario di quello che la pubblicità ci vuole fare credere, non esiste una mamma perfetta. Nel mondo reale esistono le mamme imperfette con i loro bambini imperfetti. E grazie a dio! Perché sarebbe pericoloso per i nostri figli pretendere di crescerli in un mondo irreale.

Oggi - a distanza di un anno dalla nascita di mio figlio - sento che forse è stato utile potergli dare il messaggio che nella vita delle mamme e dei papà reali ci sono anche i problemi, ma che insieme a loro riceviamo il dono di poterli risolvere e la possibilità di poterli condividere con altre persone. Nella vita dei genitori reali esistono persone che tutti i giorni cercano soltanto di dare il meglio di se stessi…

13 - VESTITI


E. C. , mamma
Perché è dai vestiti che si capisce. E dalla collana, abbinata al colore delle scarpe, o a quello della maglietta. E poi dalla forma dei capelli, dal viso più colorato, dalla borsa, grande o piccola, però carina. E dal sorriso, anche nella stanchezza dell’insonnia dell’ultimo trimestre.
Perché i vestiti parlano in quei mesi. E cambiano, e riescono a sembrare bellini anche se ne hai due in tutto, forse è per come li abbini, forse è per la donna che ci infili dentro. Rimane qualche momento difficile: all’inizio, quando ancora non hai capito come andrà davvero per te, quando magari vuoi (o devi) aspettare a lasciar “sbucare” la pancia; e poi più avanti, quando ti ripeti “io quegli orrendi vestiti premamam non me li metterò mai”, anche se alla fine qualcosa di infilabile lo devi comprare, soprattutto se partorisci d’inverno, anche perché di solito vai a lavorare e gli altri già temono la tua gravidanza, figuriamoci l’allarme di vederti vestita in modo diverso. E magari succede che un giorno arrivano le colleghe, quelle proprio con cui non scambi mai nulla, tranne un rapido saluto in corridoio, che ti portano un sacchetto pieno di cardigan, e magliette, e pantaloni. E sembra tutto molto strano, perchè con gli altri vestiti, quelli di quando sei “normale”, non lo farebbero mai. I vestiti “normali”, si sa, si scambiano solo con le amiche amiche, o con le sorelle, o con le figlie (quando te lo chiedono loro).
Perché dentro i vestiti sta il corpo. Ed è nel corpo, prima che nella testa, che tutto accade. Solo che questo le altre donne non lo raccontano mai, in quel turbinio di smagliature, di pance che trasformano donne in balene, di ossessioni da olio di mandorle, di seni svuotati, tutte inseguite dalla smania di ritornare “quella di prima”.
Ma tanto quella di prima non ci ritorni mai. È vero che alcune diventano addirittura “meglio”, tanto si impegnano; solo che quella di prima era un’altra, anche se non si dice. Io ad esempio sono ritornata magra, e in poco tempo (la massima fortuna, no?). Ma non più l’Elisabetta di prima: abbastanza provata, direi sfinita e un po’ prosciugata, così mi sento. E forse va bene che quella di prima non ci sia più, spesso ne sono felice. Però avrei voluto e vorrei che qualcuna lo raccontasse che non ha senso tutta quella preoccupazione di mantenere, preservare, ripristinare…
Perché anche dopo, in un dopo che dura tanto, tantissimo, tranne qualche fortunato momento di cura, per una festa, un impegno di lavoro quando ricominci, oppure quella domenica in cui riesci ad asciugarti un po’ meglio i capelli, anche dopo è dai vestiti che si capisce. Buttati addosso, sempre di fretta, prima macchiati, poi spiegazzati da “mamma braccio, braccio!!”, perfettamente abbinati ai capelli, che la forma non la riprendono più, anche quando smettono di cadere. E i pantaloni, in cui entri, non entri, poi rientri e comunque alla fine ti stanno un po’ male. Tanto nel frattempo sono pure passati di moda, anche se a te sembrano i soliti pantaloni neri, normali. Normali, appunto. Di quella normalità delle donne che diventano madri “da grandi” e che continuano a essere tutto il resto, ma il loro corpo lo sa, e lo dice, che adesso, e per sempre, sei davvero diventata un’altra. Una testa di donna in un corpo di madre. O un corpo di donna con una testa di madre. E dei vestiti sempre un po’ sbagliati addosso.

14 - L'AMORE E L'OMBRA


M. V., mamma
Anche ieri è venuta fuori l’ombra che è in me.
Sì, dentro di me esiste un’ombra: ha un’altra voce, parole cattive e rabbia a non finire.
Si cela nell’intricato meandro del mio cuore e della mia anima, dentro di me…
Ho capito che esiste e ho accettato che esista (o forse ci sto ancora solo provando?).
Esce quando le mie difese si abbassano. Quando il mio controllo su di essa scioglie le briglie. Di solito quando la stanchezza è a dei livelli indescrivibili e c’è qualcuno dei bambini che continua a chiedere di più di più di più, sempre di più. L’ombra ce l’ha con loro. Li odia. Sì li odia proprio.
L’ombra esce quando il limite viene superato. Loro forse non capiscono quand’è il limite, o forse vogliono solo capire qual è il limite. O forse farti capire qual è il limite.

La prima volta che è uscita allo scoperto ricordo che Riccardo era piccolissimo. Si svegliava continuamente di notte e di giorno era sempre attaccato al mio seno. Era l’unico modo per farlo dormire un po’; poi si risvegliava e tutto ricominciava. Ero sempre io ad alzarmi. Ero io ad avere il latte per lui. Ero l’unica persona ad essere giusta per lui. Tutti me lo dicevano ed io nel mio inconscio volevo che fosse così. Di notte ero io. Di giorno ero io. Non c’era nessuno. Nessuno.

L’ombra si nutre anche di questo.
Di aspettative deluse. Di sogni infranti. Di solitudine. Di cibo.
Di rabbie inespresse.
Di dolori incompresi. Di notti insonni. Di docce non fatte. Di capelli sporchi. Di pubblicità televisive.
La mia ombra si stava nutrendo di tutto questo. Ce l’avevo dentro. Una notte, me lo ricordo benissimo, all’ennesimo risveglio è uscita. Ha fatto sentire la sua voce. Nel buio della notte.
A fatica l’ho controllata.
Poi sono rimasta sconvolta. Sono rimasta sconvolta per giorni. Non capivo. Credevo di essere un mostro. Ed in quel momento lo ero davvero.

Dunque ero un mostro? Eppure quanto amavo il mio bambino!
Eppure dentro di me c’era un’ombra che lo odiava. Che non poteva più sentire il suo pianto e che non voleva essere più al centro delle sue attenzioni.
Quell’ombra era uscita e quindi c’era. Esisteva dentro di me ed io la nutrivo con la mia rabbia. Si nutriva della mia stanchezza, delle mie forze stremate. Delle mie aspettative deluse nei miei confronti e nei confronti degli altri. Della mia solitudine.
Cosa potevo fare per controllarla?
Dovevo lavorare su me stessa?
Sfogare un po’ della rabbia… magari in un cuscino o rompendo dei piatti?
Trovare un po’ di tempo per me… difficile. Ma molto più difficile accettare che Riccardo fosse accudito a volte da qualcun altro, che qualcuno magari gli desse un po’ di frutta e mi lasciasse una o due ore per riposare, piuttosto che arrivare allo stremo delle forze e non essere più in grado di accudirlo. Per poter dare bisogna a volte prendere, altrimenti non si ha più niente da dare.
Dovevo lavorare anche sulle aspettative sugli altri e su me stessa; su questo sto ancora lavorando, chissà che un giorno…

E nonostante questo lavoro, l’ ombra esiste.
Ieri di nuovo è uscita. Margherita (la mia seconda) faceva dei capricci assurdi e svegliava Marianna (la più piccola) che era stata malata. Le mie notti erano state insonni per circa una settimana. Marianna si era addormentata finalmente e Margherita sembrava davvero la volesse svegliare nel bel mezzo della notte.
L’ombra ha fatto sentire la sua voce… ed ovviamente le bambine si sono svegliate tutte e due.

Oggi piangevo piangevo piangevo non facevo altro che piangere. Perché non sono riuscita a controllarla. Perché dei bambini piccoli non dovrebbero sentire la mamma trasformarsi così…(o forse sì?). Perché quando succede mi sento una cattiva mamma che non ama i suoi bambini, mi sento di aver sbagliato tutto e di essere tutta sbagliata: cattiva cattiva cattiva.
Di solito provo poi a spiegare loro che quando la mamma è stanca fa fatica a fare tutto quello che vogliono loro. Oggi non so cosa farò. Sembra che le bambine c’abbiano dormito sopra e che non si ricordino di nulla. Ma il loro inconscio ha registrato tutto, lo so.

L’ombra è in me. L’ombra è una parte di me. Non so quanto io riesca ancora ad accettare la sua presenza, ma so che c’è e che si nutre di tutte quelle frustrazioni e limiti, che sono comunque umani, ma che alla fine spesso si accumulano giorno dopo giorno dopo giorno dopo giorno, come un lavandino pieno che alla fine straborda.

Ora credo che i bambini siano davvero dei grandi maestri. Che la maternità porti con sé un lato assolutamente magico e divino, ma anche un’ombra sconosciuta da dover affrontare.
I bambini ti insegnano delle cose su te stessa che senza di loro non avresti mai e mai imparato. Ti fanno davvero vedere i tuoi limiti e le tue debolezze. Ti insegnano che nella luce dell’amore ci sono anche l’ombra e i dolori. E che tutto ciò fa parte della vita e dell’essere umani.

15 - D'IMPROVVISO L'OSCURITA'


E., mamma
D’improvviso l’oscurità.
Non vedo più chi sono, non vedo chi ho davanti.
Mi sento circondata, oppressa, soffocata. Devo lottare contro, gridare e sopravvivere.
E quella voce, quelle voci, che con insistenza implacabile mi chiamano, diventano un rumore percussivo e insopportabile: mamma, mamma, mamma…

«Basta, lasciatemi in pace! Bastaaaa!
Sono ai fornelli, sto cucinando per voi e non mi date tregua, neanche cinque minuti.
Non voglio più sentirvi, non fiatate, non una parola, silenziooo… almeno per cinque minuti.
Sì, sì, piangi; non ti farà male.
Non vuoi mangiare? Non mi importa, non morirai di fame.»
A quest’ora della sera non c’è più succo da spremere, è rimasta la buccia con il gusto un po’ amaro dell’agrume. Ma da qualche tempo, qualche volta, e anche più spesso, capita che il succo si esaurisca già al mattino. Basta un rifiuto, un dispetto, un capriccio, un sano gesto di emancipazione e come una cascata esce il veleno.
Tutto è fatica: vestirvi, addormentarvi, mangiare e uscir di casa. Ogni momento sembra saltar fuori una difficoltà, un’opposizione. Avete sempre voglia di giocare e io invece, con rigidità, distinguo gioco e incombenze; voi avete i vostri tempi e io ho solo voglia di finire presto.
Come vestiti zuppi e appesantiti mi siete addosso. Vorrei scrollarvi e liberarmi: non riesco più ad alzare un braccio, a muovere una gamba; sto andando sotto, sotto; sto affogando.
Ma nuda no, non ci starei mai. Mai sono stata un giorno, né una notte, senza di voi.

Eppure quante volte, accarezzando la mia pancia tesa, ho assaporato la felicità di sentirmi chiamare con quel nome: mamma. Pensavo alla dolcezza del suono delle due sillabe, al calore dell’abbraccio, al profumo di biscotto dei bambini, alle morbide guance in cui affondare un bacio.

Pensavo anche alla fatica di crescere e accudire due bambini, ma non a quella della solitudine, quando tenevo la mia pancia tra le mani.
Quando infatti il “bambino cresciuto” arriva a casa, ancora una volta l’attesa è delusa: altre richieste, a volte altre pretese. Io che speravo, se non in un aiuto, almeno in un diversivo che li distraesse dalla mia persona, mi sento dire: “Fa’ come se io non ci fossi. Non mi chiedere niente: sono stanco. Non sono a tua disposizione, non sono il servo. Che cosa hai preparato da mangiare? Ma non c’è questo e non hai cucinato quello? Che cosa hai fatto tutto il pomeriggio? Ma perché sei nervosa? Non sorridi mai. Che cosa ti manca? Sei fortunata, alle quattro sei già a casa: tu puoi stare con loro e rilassarti.”
Già, sono fortunata: lavoro poco e mi rilasso coi bambini! Sono fortunata!
No, davvero sono fortunata: non farei mai cambio. Solo una volta… o due, perché anche tu possa provare tutta la mia fortuna… insieme al mio relax!

Oscura solitudine della mia coniugalità. Oscurità della mia maternità. Nella seconda c’è lo zampino della prima. Ma la seconda pesa enormemente (più della prima): pesa vedermi senza più risorse, mi fa soffrire vedermi insofferente alle vostre richieste; mi opprime la tragica realtà e il senso di colpa di non riuscire a darvi il meglio… neanche di me stessa.
Sono una madre insufficiente, sono imperfetta (e perché non desiderare un po’ di perfezione non per me, per sentirmi la coscienza a posto, ma per voi, solo per voi); comunque sono così diversa da come ho desiderato essere e tuttora, nonostante tutto, con tutte le mie forze desidero.

16 - SKLERO


A., mamma
Non dire una parola che non sia d'amore (G. L. Ferretti)

Stamattina ho avuto un momento di sklero totale, come te, quella volta che hai lanciato il telefonino. Avrei tirato la sedia contro un muro! L’ho pure tirata, ma era leggera e allora la spingevo per terra, sul quel pavimento fantastico
di gomma che hai messo con tanta fatica in cucina e che è una figata (quindi nessun danno). Adesso ho già un po’ rimosso.

Ieri sera mi hai dato della subdola: che fallimento! Che fastidio quando ti impunti, invece che essere comprensivo!
Ma ora che ci penso: comprensivo lo devi per forza essere stato - e a volte me ne sono anche resa conto.
Comprensivo, sì, e anche tanto: spero che tu lo rimanga anche dopo che è nato il bambino. Ecco, per esempio, una delle paure della maternità: questo stato di protezione finirà?

Per fortuna stamattina, mentre skleravo, invece di mandarti un messaggino tra il lamentoso e l’incazzato, ho deciso invece di chiamare un’amica.
Prima cercavo di riassumere tutto in due invii per renderti noto il mio stato, pensando di aver bisogno di qualcuno che mi calmasse. Povero bambino dentro la pancia: cosa gli sto facendo? Con ‘sti singhiozzi e questi urli isterici, appena un po’ repressi, e i due tiri di tabacco di ieri sera... Invece ho chiamato la mia amica. In lacrime.
- "Ciao, sono incazzata! Sto tirando le sedie per terra!"
Per fortuna che c'è qualcuno a cui posso dire così, che sa reagire senza farmi ancora più incazzare. Mi dice assolutamente di calmarmi, di respirare, di dire piuttosto venti padre nostri, visto che lo yoga, ahimè, viene bene solo quando si è già un po’ calmi. Poi arriviamo presto al punto: le parlo dalla litigata della sera prima, a proposito di stupidissimi mobili da eliminare, al fatto che tu sei andato a lavorare alle sei di tua propria iniziativa, al fatto che insomma io vorrei stare tutto il tempo con te - magari non proprio questo, ma… boh… insomma... decisamente ti vorrei più con me.
E temo, temo che tu non voglia stare con me… non dico al momento del parto, ma in generale.
Temo terribilmente, anche solo per alcuni secondi, che tu in realtà non mi vuoi, non mi ami, mi senti come un dovere.
E temo, temo di separarmi da te un giorno, come se fosse il dramma più grande, lo scenario più indesiderato…
Un’altra sicura paura nella maternità: e se non ci sarà amore?
Tu invece pensi a farti un culo esagerato per mettere tutta la casa a posto, pensi al lavoro e ti devi anche sentire in colpa...
E ancora, ancora altri dettagli; fino ad arrivare alla conclusione che comunque ‘sta storia di diventare genitori è un bouleversement (uno sconvoglimento) per te come per me. Poi ritorno al mio problema, accantonando il tuo (lo dico sempre agli altri di risolvere prima i propri problemi, di cambiare se stessi e solo dopo studiare gli altri, individuare cosa potrebbero cambiare... Be’, allora lo devo fare anch'io, no?), mi accorgo che è un problema analogo al tuo: non sarò più solo figlia, sarò anche madre. La mia nuova identità.

Sì, al di là di tutto, mobili, tempo, amore, è questa nuova identità che aspettiamo (baby, io madre e lui padre) ad essere un problema. Non ce ne sono altri, di tipo materiale. È che siamo abituati, così abituati a pensarci individualmente, che il cambiamento crea traumi, è sentito come un vero, fondamentale, cruciale, incredibile bouleversement. Allora reagiamo come possiamo, ognuno in maniera diversa, soprattutto se uomo o donna. Non siamo perfetti. Se non fossimo così individualisti avremmo meno da pensare intorno ai problemi della nascita, ai traumi della coppia, etc etc...
Non è che siamo egoisti, è proprio la nostra cultura di fondo, il nostro modo di relazionarci come individui. Allora io futura mamma, come individuo, devo concentrarmi sull’avvento che mi incarna in questo momento. E lo farò. Così tutto il resto si armonizzerà con questa, che è la cosa più certa, più vera, più pura e naturale che sta per compiersi: la realtà al di là di tutti i nervosismi e le esigenze, posso anche pensare di spostarli io i mobili… be’, ecco, non proprio io, ma farli spostare io... Insomma, pensare che di avventi di bambini ne accadono in migliaia di situazioni diverse (e fra tanti mobili diversi) mi potrebbe semplicemente aiutare.

Poi basta. Mi sono calmata. La mia amica mi ha anche raccontato un episodio di una storia d'amore magica e decisamente mi sono calmata. Casualmente è seguita una mattinata di molte altre parole al telefono, sempre a teorizzare e analizzare problemi di relazioni di coppia, con mia sorella, che in certi casi mi presenta delle situazioni in cui mi immedesimo esattamente al contrario, quindi mi servono molto, mi preparano...

In conclusione, non so bene che dire. Rimane che ti vorrei vicino a sorridere con me, vorrei che non ci fosse nessun altro che noi nella tua testa. Nel momento di massima tristezza, in cui era più forte la sensazione di incomunicabilità tra noi, ieri sera mi era passata tutta la voglia di essere madre - madre di tuo figlio. Era incredibile da pensare, ma era vero.
Adesso invece penso che ti farò vedere le mie debolezze e allo stesso tempo cercherò di superarle, di superare il mio individualismo con un po’ di forza d'animo.
Cos'è poi questa forza d'animo? Secondo me c'entra con la capacità di perseverare nel vedere l'amore e nell'esprimerlo.
Per fortuna che ti ho sempre chiamato amore. E poi… niente: c'entra anche con un poco di pazienza. Perchè verrà il tempo per ogni cosa. Ora il tempo, a tre giorni dalla scadenza, è un tempo che sfido chiunque e definire.

Sono così felice, e talmente voglia di piangere, di non pronunciare né pensare nessuna parola; o almeno nessuna parola che non sia d'amore.

17 - LATI OSCURI NELLA PATERNITA' ?


A. M., papà
Con questo breve intervento vorrei tranquillizzare i neo-papà della Casa di Maternità, dall’alto della mia tripla esperienza.

Ebbene, bisogna sapere che, a parte alcuni aspetti secondari
(come la paura che la tua donna diventi troppo mamma;
il peso del nuovo ruolo;
il non capire quale debba essere questo nuovo ruolo;
la paura che potresti diventare come tuo padre;
il pensiero di non aver fatto tutto quello che una coppia senza figli può fare e che ora sia troppo tardi;
la paura di non essere più l’unico per i suoi occhi;
il sentirti dire da tutti e aver visto in mille film che niente sarà più come prima;
il ricordo di un verso di una canzone che sentivi quando certe cose erano lontanissime: “com’è difficile restare padre quando i figli crescono e le mamme imbiancano”;
il dover ammettere di non essere più un ragazzo;
il pensiero affascinante ma anche inquietante che un figlio è per sempre;
il sentire dire da tutti che la figura del padre oggi è in crisi;
la prospettiva che non ci sarà più tempo per il sesso;
la consapevolezza di non conoscere ninne nanne o favole della buona notte, forse perché nessuno te le ha raccontate;
la coscienza che avere figli è anche un viaggio dentro se stessi, che non puoi sapere cosa scoprirai;
la consapevolezza che non sta per accadere un nuovo fatto nella tua vita, ma che è la vita stessa che sta virando;
l’inquietudine, infine, di non sapere chi o cosa sarai dopo per te stesso e per gli altri),

a parte questo, dicevo,
NON CI SONO LATI OSCURI NELL’ESPERIENZA DELLA PATERNITÀ!

18 - DIFFICOLTA' MATERNA


La scelta del parto anonimo

L’incertezza e il diniego della donna verso il proprio nato
espone a livello individuale e collettivo
a dover riconsiderare il comportamento materno
al di fuori da riferimenti di necessità e indefettibilità

Intervista alle operatrici del servizio Madre Segreta a cura di J. M., mamma
Matilde Guarnirei, psicologa responsabile — Marta Malinverno e Monika Nussbaumer, assistenti sociali

Nel tempo il fenomeno dell’indisponibilità materna facilmente è stato rimosso e collocato al di fuori del sociale. La donna viene considerata una strega o è ridotta in un ambito di devianza da compiangere e ricondurre nella norma: la sventurata.
Il servizio Madre Segreta istituito dalla Provincia di Milano si pone come interlocutore e sostegno per queste donne, nel rispetto delle loro scelte e del loro anonimato, per trasformare una situazione di difficoltà, di rifiuto in un processo di consapevolezza che sfoci in una scelta responsabile.

Chi siete e come lavorate oggi?
Il servizio è stato istituito nel 1996 ed è composto da una psicologa responsabile, due assistenti sociali e una segreteria. Ci rivolgiamo alle donne, agli operatori sociali e sanitari del territorio, ci occupiamo di comunicazione esterna e svolgiamo un’attività di documentazione e ricerca.
Il primo contatto con il servizio si fa attraverso una linea verde (800 400 400) gestita da volontarie formate da noi e sotto la nostra supervisione.

Com’è nato il servizio?
È stato voluto dal presidente della provincia di allora, per rispondere a un’ondata di infanticidi in Italia. A livello nazionale, l’allora Ministro Livia Turco aveva sollevato una riflessione sul fenomeno dell’infanticidio. C’era stata una campagna informativa di prevenzione, di pubblicità sociale sull’argomento, e alcune province, tra le quali Milano, si erano sensibilizzate al problema.
Prima di aprire questo servizio è stato fatto uno studio sui bisogni e sulle aspettative delle donne e sulle situazioni di non riconoscimento negli ospedali di Milano.

Quindi esisteva questo fenomeno? Le donne praticavano già il parto anonimo?
Nel 1928 la legge sull’ordinamento dello stato civile confermava la possibilità per la donna di rimanere anonima al parto e di non riconoscere il bambino. Non è la legge del ‘28 che ha reso questo possibile, era già possibile nell’ 800, per dire. In seguito è stato introdotto anche nel codice civile: l’articolo 250 dice che il bambino può essere riconosciuto. Quindi non è un obbligo, è una facoltà.

Dopo lo studio effettuato si è evidenziata la necessità di un sostegno alle donne perché usufruissero di questa possibilità?
Il titolo della ricerca era “Minori abbandonati, madri abbandonate”. Quello che emerse fu la forte solitudine delle donne. Ed è a partire da questa considerazione che si è strutturato il servizio, inserendosi all’interno del settore politiche sociali della provincia di Milano. L’obiettivo era di dare un sostegno alle donne nel percorso dalla gravidanza al parto, dedicando una parte del lavoro direttamente alle donne ma anche lavorando per sensibilizzare gli operatori dei servizi sanitari e sociali sul territorio, perché si creasse una posizione di rispetto e di neutralità rispetto alla scelta della donna al parto e successivamente si strutturassero delle prassi operative all’interno degli ospedali nell’accostarsi a queste situazioni e nell’aiutare la donna in questa scelta.

È stato difficile? Quali erano le difficoltà ad accettare questo tipo di situazione?
Certo, le difficoltà ci sono state e ci sono ancora. Il momento del parto è molto intenso, è facile confondersi, lasciarsi prendere dalle proprie emozioni, anche per gli operatori. Se il personale è appositamente formato e ha delle linee guida da osservare, è più difficile che le considerazioni personali prendano il sopravvento. Ciò permette di non accostarsi a queste donne con un atteggiamento giudicante e aiuta a mantenere una certa neutralità. La formazione aiuta il personale e di conseguenza aiuta la donna.
Non puoi cambiare le persone, ma puoi cambiare l’atteggiamento rispetto ad alcune situazioni. Magari parlando con noi qualcuno riesce a cambiare la propria visione; alcuni dicono io non lo posso fare, meglio che lo faccia la mia collega, e anche in questo caso va bene. Queste donne rappresentano una realtà diversa e non consueta, che può intimorire sollecitando sentimenti di precarietà e abbandono. Propongono un’immagine femminile con cui può essere difficile rapportarsi serenamente.
La formazione guarda a questo aspetto della difficoltà materna sotto diverse angolazioni, tra cui un taglio storico: partiamo da Mosè abbandonato nelle acque, dalle origini quindi, per spiegare com’è il fenomeno oggi e come è stato affrontato dalla società nei vari momenti storici, fino ad oggi. Poi trattiamo gli aspetti giuridici (diritto di famiglia) e infine gli aspetti psicologici, emotivi e le motivazioni della donna.

Il fenomeno dell’abbandono, sotto tutte le sue forme?
Noi consideriamo l’abbandono alla nascita: i bambini che venivano lasciati sulla piazza o davanti alla chiesa. È il nostro tema.
Noi preveniamo l’abbandono successivo, anche alla nascita l’abbandono è traumatico, sia per la madre che per il bambino, però siamo convinti che lo sia di meno rispetto all’abbandono successivo.
Un altro aspetto della formazione riguarda la prevenzione, la necessità di saper riconoscere la difficoltà materna già prima del parto, per vedere i segnali, negli ambulatori.

Quali sono questi segnali?
Per esempio una donna che al quinto, sesto mese di gravidanza fa il primo controllo è un segnale: bisogna chiedersi il perché. Se una donna si presenta alla fine del terzo mese, o al quarto e insistentemente chiede l’interruzione di gravidanza, questo è un segnale, bisogna approfondire, senza rispondere semplicemente: “ Mi dispiace signora non può più farla, arrivederci”. Bisogna proporre alla persona un colloquio con lo psicologo, con l’assistente sociale.
La minorenne non accompagnata, o male accompagnata o le gravidanze seguite con trascuratezza: sono tutte situazioni cui prestare attenzione, può darsi che non sfocino in un non riconoscimento, ma in ogni caso parlano di una difficoltà nell’affrontare questa prossima nascita. Noi puntiamo molto sull’insegnare a riconoscere questi segnali per creare un percorso di sostegno per la donna già durante la gravidanza, perché le situazioni più difficili sono quelle in cui la donna arriva al parto senza conoscere nessuno.

Potete descrivere la tipologia delle persone che arrivano a voi?
Dall’inizio del progetto Arianna nel 1998, soltanto dopo due anni dall’apertura del servizio, abbiamo potuto prendere in carico le donne direttamente. I casi che abbiamo seguito sono stati 221. Nei primi anni, per la maggior parte erano italiane; dal 2000 in poi sono aumentate le straniere. Questo ovviamente rispecchia l’afflusso migratorio. Abbiamo visto che questi due gruppi hanno delle caratteristiche un po’ diverse, sia per l’età media che per le motivazioni. Le donne italiane sono più giovani e sono alla prima gravidanza, mentre le straniere hanno spesso già una famiglia in patria.
Bisogna precisare che su queste 221 donne non tutte hanno poi lasciato il bambino in adozione: sono donne che hanno espresso difficoltà materna durante la gravidanza e che il nostro servizio ha seguito dal quinto/sesto mese di gravidanza fino al parto e anche dopo.

E su queste 221 quante sono quelle che non non hanno riconosciuto il bambino?
Il 56 % non ha riconosciuto e il 44 % ha riconosciuto.

In maggioranza, queste donne sono da sole o hanno un compagno?
In maggioranza, trasversalmente, queste donne sono da sole. Poche hanno un compagno, o comunque poche hanno un compagno che si renda disponibile. Tante donne non hanno neanche informato il partner, o perché lo conoscono appena, o perché è meglio così, o perché non lo ritengono all’altezza. Laddove lo informano, soltanto il 10% si rende disponibile ad aiutarle. Non tanto per una paternità, ma anche soltanto per il percorso fino al parto. Nella maggioranza dei casi quindi la responsabilità del nascituro sarà unicamente della donna.

Quindi è tangibile quella solitudine di cui si parlava prima?
Una solitudine totale. Anche nelle giovani donne italiane che vivono in famiglia, apparentemente in una buona situazione, emerge poi una profonda solitudine interna, legami complicati, difficili e superficiali con i familiari. In molte ci dicono che non possono assolutamente dirlo ai genitori, i quali fino al nono mese non si accorgono di nulla. Diciamo che le persone vivono insieme, ma non si guardano, non si ascoltano e non si vedono. Meglio non vedere: forse è anche quello che trasmette la donna stessa: è lei la prima che nega, nega a se stessa, non vuole affrontare e invia all’altro il messaggio: meglio che tu non veda, meglio che tu non affronti la situazione.

Come mai non abortiscono, dato che l’aborto è possibile e legale fino al terzo mese di gravidanza?
Non ci arrivano perché l’inconscio le tradisce. C’è una separazione tra mente e corpo, la gravidanza fisiologica va avanti e la mente non legge i segnali del corpo. In fondo c’è un desiderio di gravidanza, o meglio, un desiderio di fertilità, più che di bambino. Questo desiderio sfugge completamente al controllo della mente. Sono tutte ragazze, o signore, che hanno accesso all’informazione, non è un problema di ignoranza. Come dice la Vegetti Finzi “l’inconscio tradisce la mente”.
Perciò arrivano a scoprire di essere incinte oramai al quinto, sesto, settimo mese di gestazione. Sono divise tra l’imporsi del proprio stato e la difficoltà di trovare in sé e nel proprio contesto di vita uno spazio materno. Per questo sono portate a nascondere ciò che provano, rimandando continuamente per ansia e paura il momento di affrontare realisticamente ciò che sta loro accadendo.

Quali sono le motivazioni esplicite che danno quando arrivano da voi?
Noi abbiamo distinto le motivazioni personali dalle motivazioni ambientali. Se vogliamo fare due categorie le donne straniere rientrano nelle motivazioni ambientali: hanno una famiglia da mantenere, devono assolvere a un compito ben preciso, devono guadagnare; una gravidanza interromperebbe questo processo, perché perderebbero il lavoro, non hanno la casa e le difficoltà sono tangibili. Infatti i dati ci dicono che queste gravidanze avvengono nei primi tre anni di migrazione, non dopo, quindi durante gli anni più precari, quando non hanno ancora il permesso di soggiorno.
Per le donne italiane le motivazioni sono più personali: la problematicità famigliare, i rapporti all’interno della famiglia e la problematicità personale, in cui spesso ricorre un atteggiamento del tipo “Io sono incapace, non sono in grado”. Questo è legato anche alla nostra società in cui l’aspettativa è sempre molto alta.

Quindi gioca l’immagine idealizzata di come deve essere una madre?
Piuttosto è necessario avere compiuto alcuni passi prima di fare figli. La donna oggi deve prima realizzare se stessa, e poi può diventare madre. Questo vale per tutti, si fanno pochi figli; si rimanda perché prima si vuole avere un lavoro stabile, una casa, una relazione fissa. Tutti presupposti considerati indispensabili al mettere al mondo un figlio. Quindi “Se io non ho ancora tutto questo la gravidanza mi mette in crisi, non me la sento, non sono pronta, non sono in grado”.

Ci sono anche persone con disagi di ordine psichico?
Alcuni casi, ma sono un’assoluta minoranza, presentano patologie psichiatriche.
Invece un fenomeno recente riguarda coppie coniugate che riscontrano un handicap del bambino alla nascita. Sono situazioni che non sono arrivate a noi prima perché era il decorso di una gravidanza normale, desiderata, fisiologica. Poi, alla nascita, viene riscontrato questo handicap, scoppia una grave crisi nella coppia. L’ospedale allora ci chiede uno spazio di sostegno per questi genitori nella scelta rispetto al bambino.

Quindi si può fare questa scelta anche dopo il parto?
Sì, fino a dieci giorni dopo il parto. I genitori possono avvalersi della legge sull’anonimato al parto e lasciare il bambino in adozione.
In questo caso non si tratta di un percorso per arrivare a una scelta consapevole, ma per rivedere una scelta fatta, quella di non tenere un bambino gravemente handicappato.

Certo, perché hanno fantasticato un bambino che non c’è, o meglio che è diverso, non corrispondente alle aspettative, inaccettabile per loro.
Spesso facciamo un pezzo di lavoro qui, massimo sette, otto sedute, e poi viene indicato un trattamento fuori, per uno o i due membri della coppia. Perché è un percorso lungo, che muove molte cose. Questo è un fenomeno nuovo.

Rispetto alla motivazione iniziale di questo servizio, prevenire l’infanticidio, quali sono le vostre valutazioni?
Noi pensiamo che il fenomeno dell’infanticidio continuerà a esistere perché è un fenomeno diverso. Pensiamo che riuscendo ad agganciare alcune situazioni forse abbiamo evitato una nascita drammatica.
Però nelle situazioni di infanticidio ci sono componenti pregresse, non è una scelta consapevole, è una scelta totalmente inconsapevole, che si compie con un velo davanti. Anche togliere questo velo è un compito difficile. C’è una chiusura tale in queste situazioni, attorno alla donna, che non permette l’arrivo in un servizio o addirittura in un ospedale. La donna stessa è chiusa, oppure le persone che le stanno intorno non le permettono di uscire da quello stato. Spesso sono parti anticipati, non arrivano a termine, nella negazione c’è anche l’improvvisazione del parto, lo shock, l’urgenza.

Tra le donne che avete seguito quelle che hanno poi fatto la scelta di tenere il bambino, lasciate sole, non avrebbero potuto trovare le risorse sia interne che esterne per poter accogliere il bambino?
Assolutamente no, perché la possibilità di fruire di un contesto protetto di sostegno, in cui affrontare le proprie responsabilità e orientarsi, aiuta la donna a superare una situazione di isolamento e di angoscia che le impediva di pensare.
La donna fa un percorso, e noi la accompagniamo, facendole notare tutte le sfaccettature della sua situazione, vedendo le possibili risorse e valutandole insieme a lei. A un certo punto alcune di esse capiscono di potercela fare, mentre altre non ci riescono, non trovano queste risorse. Una cosa che si fa sempre è di cercare se c’è qualcuno che potrebbe essere di aiuto; ci dicono: “non ho nessuno”. E poi nel percorso viene fuori che qualcuno c’è. Magari ci vuole un po’ di coraggio per affrontarlo.
Comunque in entrambi i casi si arriva a una scelta veramente pensata. Anche la scelta di non riconoscere è una scelta pensata, sia rispetto a un proprio spazio interno che rispetto alle esigenze, alle necessità del bambino, nel riconoscere che anche lui ha dei bisogni. Spesso le donne in vicinanza del parto fanno domande più precise su che cosa succederà al bambino e sentiamo che sono rassicurate dal sapere che il bambino dall’ospedale andrà direttamente in famiglia, che è un’adozione immediata.

Questo le aiuta in ogni modo a prendersi la responsabilità di quella nascita, e del futuro di quel bambino, che sia tenere il bambino o lasciarlo in adozione? C’è un processo di consapevolezza rispetto alla negazione che è avvenuta prima, finché si sono accorte della gravidanza e hanno dovuto chiedere aiuto?
Sì. Arrivano con la negazione, non parlando quasi della gravidanza. Il percorso è arrivare a parlare di sé e del bambino.

Il parto è un momento impegnativo. Il fatto di non riconoscere ha un influenza sulla scelta del parto? Può rendere difficile l’uscita di questo bambino?
Per tutte le madri è così: c’è chi è pronta e può avere un parto facile, e chi non è ancora mentalmente pronta, quindi va oltre il termine, e può avere un parto difficile, lungo.
Mi ricordo che in uno dei primi incontri di formazione alla Mangiagalli, otto anni fa: una domanda di un’ostetrica riguardava la necessità di un parto cesareo perché la donna non dovesse vivere la nascita. E invece no, è un parto normale. Spesso, appena arrivano, chiedono se possono fare un parto cesareo perché non vogliono vedere né sentire. E noi cerchiamo un po’ di vedere cosa c’è dietro questa richiesta per far loro capire che un parto cesareo si fa per indicazioni mediche. È un lavoro che facciamo insieme a loro per esprimere le paure, le emozioni che si stanno scatenando. Il parto deve essere trattato come per le altre donne. È un parto a tutti gli effetti, non “un parto per lasciare il bambino”.

Vedono il bambino appena nato?
Possono vederlo oppure no, è una loro scelta.
La madre può chiedere di vedere il bambino anche dopo. In tal caso si organizza un incontro con l’assistente sociale dell’ospedale e con una puericultrice, viene accompagnata nel vedere il bambino perché per una donna che ha deciso di lasciare il figlio, questa richiesta ha un significato.
Così come ha un significato se una donna chiede ripetutamente di vederlo: allora c’è un problema di separazione, e bisogna affrontarlo bene.

Capita che poi cambino idea all’ultimo momento?
Sì, capita. È successo recentemente a una ragazza, che ha tenuto il figlio; lei per esempio aveva un compagno; però i problemi erano di precarietà per entrambi. Poi, al momento della nascita, ha cambiato idea.
Come dicevamo il parto non è per lasciare il bambino ma per fare nascere il bambino, per vederlo, per rivedere le proprie emozioni, i propri vissuti e arrivare a una scelta che si definisce dopo il parto. Qualche madre ci chiede se deve firmare qualcosa prima, noi spieghiamo che tutto arriverà dopo, che avrà modo di parlare con noi e con l’assistente sociale dell’ospedale. Riceverà le informazioni sul percorso dell’adozione in modo formale, sono informazioni che abbiamo già dato ma che diventano formali in quel momento e possono essere comprese anche meglio.

Le madri non vengono a sapere da chi è adottato il bambino?
No. Quando la separazione è compiuta non c’è più ritorno. Sono due strade separate. La nostra legge sull’adozione vieta all’adottato maggiorenne di avere accesso ai dati dei genitori naturali.
C’è un contrasto tra il diritto alle origini sancito dall’ONU che dice che ogni bambino ha il diritto a sapere delle proprie origini e la nostra legge che garantisce alla donna il diritto all’anonimato. Sono due leggi incompatibili. Adesso, in Italia, varie corti costituzionali si sono espresse a favore della donna, quindi il suo diritto all’anonimato non può essere leso dalla ricerca delle origini, ma la discussione è aperta su tutti i fronti, non è così semplice.

Questo fenomeno dell’abbandono alla nascita è un fenomeno che è sempre esistito, in tutte le epoche storiche, a causa di situazioni più o meno stabili economicamente, in guerra piuttosto che in pace. Dobbiamo considerare che ci sarà sempre, come un fenomeno che fa parte dell’organizzazione sociale?
Certo, anche nella società del benessere. Va detto che rispetto agli anni ‘50 è diminuito tantissimo e le politiche della famiglia hanno influito in questo senso. Però sotto una certa soglia non si scende; per esempio abbiamo confrontato i numeri con la Francia dove le politiche per la famiglia sono ancora più favorevoli, il fenomeno rimane nelle stesse proporzioni.

Cosa resta da fare rispetto a questo fenomeno?
Noi continuiamo a pensare che l’informazione sulla difficoltà materna in generale, non soltanto rispetto alla problematica specifica di cui ci occupiamo noi, rimane insufficiente o inadeguata. Basta guardare come vengono riportati i fatti di cronaca; invece di cercare di suscitare emozioni nel pubblico, bisognerebbe cogliere l’occasione per dare informazioni precise. Noi pensiamo che un’informazione più puntuale potrebbe muovere qualcosa. Da un punto di vista socio culturale il tema dell’impossibilità materna è molto complesso: pregiudizi, stereotipi e comportamenti difensivi ne rendono più difficile una valutazione razionale. I mezzi di informazione potrebbero sollecitare un atteggiamento riflessivo e non superficiale sul fenomeno, noi ci battiamo per questo.

19 - QUI AD OTTAVIA


L. V., mamma

C’è un precipizio in mezzo a due montagne scoscese: la città è sul vuoto, legata alle due creste con funi e catene e passerelle… *

Quanta forza, quanta sotterranea e insospettata forza nell’essere genitori!L’ho vista emergere nelle mamme e nei papà dei bambini ammalati, nei reparti di neurologia, di neurochirurgia; in quelli di oncologia, di terapia intensiva… L’ho vista manifestarsi potentemente, tanto più la situazione sembra disperata. Genitori vecchi o genitori giovani, chi con l’aria sprovveduta, chi con piglio sicuro, quelli risentiti e quelli stupefatti, quelli che pregano e quelli che inveiscono; ma quanta forza, alla fine, riescono a tirare fuori! Non ho visto nessuno scappare, nessuno darsi per vinto. Qualche volta dovrà pur succedere, io non l’ho visto. Tutti ad asciugarsi gli occhi e a rimboccarsi le maniche. Provate a fare un giro nei reparti che mi è capitato di frequentare. Vedrete genitori risoluti; genitori che, nonostante il loro dolore, non abbandonano la loro battaglia di speranza, sorridendo accanto ai loro bambini.La malattia di un figlio è una prova durissima. Destabilizza i progetti, inserisce nonsenso nella vita dei genitori, crea una sofferenza che sulle prime sembra insopportabile. In bilico tra ribellione ed eroismo, alla fine ciascuno trova una via di sopravvivenza, anche se fatica e solitudine sono sempre in agguato. Ho girato per quei dannati reparti e ho condiviso i giorni interminabili, le notti infinite. Ho visto trovare la forza e l’ho trovata, testimone partecipe.
Due mamme dialogano tra loro. Frasi essenziali e comunicazione profonda, urgente; a nudo sentimenti sinceri, niente pudore né moralismo. Coraggio e dolore. Anna rivisita la disperazione iniziale: "Se lo avessi saputo prima, non lo avrei tenuto. Mi avevano detto che non potevo fare l'amniocentesi perchè l'avrei perso. Quand'è nato avrei voluto ucciderli. Volevo uccidere. È stato un colpo troppo forte. A trent'anni, il primo figlio... uno se lo immagina come il principe azzurro. Lo dico anche adesso: non lo avrei tenuto - e sai quanto ho fatto, quanto faccio per lui. Mia mamma mi ha sempre dato ragione. Anche mio marito; si è spaventato! Perchè io sono andata in depressione… mi è andata bene: sono riuscita ad uscirne. Avrei potuto ucciderlo, avrei potuto uccidermi... cosa ci vuole? Questione di un attimo, e via. Chi ci sarebbe qui, ora, a pensare a lui?" Elena, invece, si fa forte di un'orgogliosa, consapevole scelta: “Io l’amniocentesi l’ho fatta e ho voluto tenerlo. Se se ne fosse andato da solo l’avrei accettato. Ma, per come sono fatta io, non mi sarei mai perdonata la scelta di non farlo nascere. L‘ho voluto e ancora adesso penso di aver fatto la scelta giusta. Non ho avuto mai ripensamenti. Non lo dico con la presunzione di essere, tra noi due, quella brava. Tu sei una brava mamma, lo so, te l’assicuro. Dipende dal carattere: io non potevo scegliere altrimenti”. Nelle loro parole c’è invidia per “le altre” – come non capirlo? E c’è il rispetto, il riconoscimento, la solidarietà e il sostegno che si danno reciprocamente. Forse è questo che alimenta quella loro forza e consente loro di andare avanti. - "Quello che non sopporto - dice Anna - è di sentir dire da quelle giovani, con figli belli e sani, che una mamma non ha diritto di scegliere di interrompere la gravidanza quando sa di avere un figlio malato. Cosa ne sanno!"
"Hai ragione - le risponde Elena - Noi ora sappiamo cosa significa. Anch'io, prima, non lo immaginavo"

Nei corridoi dei passi perduti ho sentito dire cose così. Mi crederete? Mi hanno confortata. Il dolore un senso non ce l’ha, però sembra portare con sé una maggior consapevolezza, la coscienza più compiuta della fragilità e della responsabilità.
… Sospesa sull’abisso, la vita degli abitanti di Ottavia è meno incerta che in altre città: sanno che più di tanto la rete non regge*

* Italo Calvino – Le città invisibili – Oscar Mondatori, 17a ed. - pag. 75

20 - CHIUSA NEL MIO DOLORE


A., mamma
L’invidia degli dèi
Prima la sua vita e la mia erano felici - e non è quello che è venuto dopo a farmelo dire. Lo sapevamo anche allora, consapevoli della nostra fortuna e orgogliose, io di lei, lei di me: ci riconoscevamo una mamma e una figlia in gamba. Poi si è ammalata. Un incantesimo malefico, un’ombra nera si è distesa su di lei, su di me, su tutto il nostro mondo.
Tra poco è un anno. Inenarrabile, denso di esperienze e sentimenti estremi. Un anno che butta all’aria tutto, che ne vale molti e che tuttavia vorremmo solo cancellare. Un cammino duro, in salita; e la cima? Là, da qualche parte, nascosta nella nebbia…

Quando mancano le parole, quando funzionano male
Quando si cerca di esprimere la paura e l’angoscia, la voce si spegne in gola.
Ogni tentativo rischia fatalmente cadere nel compiacimento, in una esibizione che subito dopo appare ripugnante. Il centro più tenebroso di questa vasta ombra è l’impossibilità di rappresentarla. Incomunicabilità; non ci sono parole, non sono mai quelle giuste.
Se la funzione trasmittente è interrotta, la funzione ricevente è gravemente compromessa. Vortici di parole che vorrebbero essere di consolazione non fanno breccia: niente da fare, non raggiungono il nocciolo di dolore. Anzi, il più delle volte suscitano insofferenza, contrarietà.

Pensieri malati
Spesso insorgono rabbia, rancore, invidia, aggressività. Non succedeva frequentemente, prima. L’affiorare alla coscienza di questi cattivi sentimenti sembra anormale, “malato”. Essi dialogano vivacemente con i sentimenti buoni, e anziché starsene contenuti e repressi, vogliono spazio, reclamano sfogo. È consolante scoprire che è esperienza comune, tra noi due, tra noi e gli altri come noi: condizioni estreme sbloccano i freni inibitori. Meglio accettarsi, concedersi una propria salutare dose di cattiveria, senza sentirsi troppo in colpa. Ci mancherebbe, bisogna salvaguardare le forze: non è il momento di lasciarsi andare ad impulsi autodistruttivi.

Dell’inadeguatezza del linguaggio umano
Difficile comunicare, a volte impossibile. Si diventa esigenti, selettivi e sospettosi, pronti a cogliere nell’interlocutore un segnale fatale che interrompe irrimediabilmente il contatto. Basta uno sguardo distratto lanciato di là, un commento incongruo, una battuta a vuoto che denuncia disagio, distacco, superficialità o paura. Perché si mantenga il filo tenue della comunicazione, della fiducia, occorre un concorso di circostanze favorevoli: condivisione, capacità di ascolto, condizioni ambientali adeguate...
Se l’unico sollievo può venire dai propri simili, quant’è difficile ottenerlo!
La solidarietà è difficile, da dare e da ricevere.

Piccolo catalogo delle frasi di circostanza
“Siamo affranti, disperati; non riusciamo a darci pace!”
La partecipazione al dolore è troppo spesso un inganno: quanto più esibita, tanto meno sincera. Il pianto sulle disgrazie altrui è un rito propiziatorio, il pensiero inconfessabile è: Per fortuna è capitata a te, io l’ho scampata!.

“Vedrai, andrà tutto bene”
Un’urtante ostentazione di ottimismo. Evita le emozioni dolorose, rimuove l’argomento difficile, scivola via sulla pena senza nemmeno fermarsi a guardarla.

“Perché questa scelta? Quali prospettive?”
Tra mille dubbi, la scelta è sempre pesante, gravida di incognite; non ammette ripensamenti. Perché chiedere spiegazioni? Per puro esercizio dialettico o per documentazione personale? A vantaggio di chi?

“Al posto tuo farei così…”
Che carrellata di buone intenzioni , che trionfo di superficialità, quante gentili intrusioni fuori tempo e fuori luogo!
Parole come mosche: non fanno male a nessuno, ma che fastidio!
Quanti sorrisi sprecati in risposta a tanti inutili buoni consigli… Nemmeno la consolazione di una liberatoria, sana imprecazione!

“Poteva essere peggio”
Indubitabilmente vero, non c’è limite al peggio. E allora? Non avevo, non avevamo il diritto di aspirare al bene, come tutti? Perché dobbiamo accontentarci di un meno peggio? Abbiamo forse qualche colpa da scontare?

“Cosa fai stasera, che tempo fa, cos’hai mangiato?”
Mi hanno spiegato che la lingua ha, tra l’altro, una funzione fàtica, serve cioè a mantenere aperta la comunicazione (Pronto? Sei ancora in linea?). Liberatemi dagli sciami di parole espresse a puro scopo di ventilazione!

“Lassù c’è qualcuno che ci guarda”
Dov’è stato fino adesso? Se prima ci avessi creduto, adesso mi sarei ribellata. Non posso che rinsaldarmi nel pensiero: dio non c’è, oppure gioca a dadi. Nessun aiuto può giungere dalle nuvole, ora meno che mai.