sabato 5 maggio 2007

18 - DIFFICOLTA' MATERNA


La scelta del parto anonimo

L’incertezza e il diniego della donna verso il proprio nato
espone a livello individuale e collettivo
a dover riconsiderare il comportamento materno
al di fuori da riferimenti di necessità e indefettibilità

Intervista alle operatrici del servizio Madre Segreta a cura di J. M., mamma
Matilde Guarnirei, psicologa responsabile — Marta Malinverno e Monika Nussbaumer, assistenti sociali

Nel tempo il fenomeno dell’indisponibilità materna facilmente è stato rimosso e collocato al di fuori del sociale. La donna viene considerata una strega o è ridotta in un ambito di devianza da compiangere e ricondurre nella norma: la sventurata.
Il servizio Madre Segreta istituito dalla Provincia di Milano si pone come interlocutore e sostegno per queste donne, nel rispetto delle loro scelte e del loro anonimato, per trasformare una situazione di difficoltà, di rifiuto in un processo di consapevolezza che sfoci in una scelta responsabile.

Chi siete e come lavorate oggi?
Il servizio è stato istituito nel 1996 ed è composto da una psicologa responsabile, due assistenti sociali e una segreteria. Ci rivolgiamo alle donne, agli operatori sociali e sanitari del territorio, ci occupiamo di comunicazione esterna e svolgiamo un’attività di documentazione e ricerca.
Il primo contatto con il servizio si fa attraverso una linea verde (800 400 400) gestita da volontarie formate da noi e sotto la nostra supervisione.

Com’è nato il servizio?
È stato voluto dal presidente della provincia di allora, per rispondere a un’ondata di infanticidi in Italia. A livello nazionale, l’allora Ministro Livia Turco aveva sollevato una riflessione sul fenomeno dell’infanticidio. C’era stata una campagna informativa di prevenzione, di pubblicità sociale sull’argomento, e alcune province, tra le quali Milano, si erano sensibilizzate al problema.
Prima di aprire questo servizio è stato fatto uno studio sui bisogni e sulle aspettative delle donne e sulle situazioni di non riconoscimento negli ospedali di Milano.

Quindi esisteva questo fenomeno? Le donne praticavano già il parto anonimo?
Nel 1928 la legge sull’ordinamento dello stato civile confermava la possibilità per la donna di rimanere anonima al parto e di non riconoscere il bambino. Non è la legge del ‘28 che ha reso questo possibile, era già possibile nell’ 800, per dire. In seguito è stato introdotto anche nel codice civile: l’articolo 250 dice che il bambino può essere riconosciuto. Quindi non è un obbligo, è una facoltà.

Dopo lo studio effettuato si è evidenziata la necessità di un sostegno alle donne perché usufruissero di questa possibilità?
Il titolo della ricerca era “Minori abbandonati, madri abbandonate”. Quello che emerse fu la forte solitudine delle donne. Ed è a partire da questa considerazione che si è strutturato il servizio, inserendosi all’interno del settore politiche sociali della provincia di Milano. L’obiettivo era di dare un sostegno alle donne nel percorso dalla gravidanza al parto, dedicando una parte del lavoro direttamente alle donne ma anche lavorando per sensibilizzare gli operatori dei servizi sanitari e sociali sul territorio, perché si creasse una posizione di rispetto e di neutralità rispetto alla scelta della donna al parto e successivamente si strutturassero delle prassi operative all’interno degli ospedali nell’accostarsi a queste situazioni e nell’aiutare la donna in questa scelta.

È stato difficile? Quali erano le difficoltà ad accettare questo tipo di situazione?
Certo, le difficoltà ci sono state e ci sono ancora. Il momento del parto è molto intenso, è facile confondersi, lasciarsi prendere dalle proprie emozioni, anche per gli operatori. Se il personale è appositamente formato e ha delle linee guida da osservare, è più difficile che le considerazioni personali prendano il sopravvento. Ciò permette di non accostarsi a queste donne con un atteggiamento giudicante e aiuta a mantenere una certa neutralità. La formazione aiuta il personale e di conseguenza aiuta la donna.
Non puoi cambiare le persone, ma puoi cambiare l’atteggiamento rispetto ad alcune situazioni. Magari parlando con noi qualcuno riesce a cambiare la propria visione; alcuni dicono io non lo posso fare, meglio che lo faccia la mia collega, e anche in questo caso va bene. Queste donne rappresentano una realtà diversa e non consueta, che può intimorire sollecitando sentimenti di precarietà e abbandono. Propongono un’immagine femminile con cui può essere difficile rapportarsi serenamente.
La formazione guarda a questo aspetto della difficoltà materna sotto diverse angolazioni, tra cui un taglio storico: partiamo da Mosè abbandonato nelle acque, dalle origini quindi, per spiegare com’è il fenomeno oggi e come è stato affrontato dalla società nei vari momenti storici, fino ad oggi. Poi trattiamo gli aspetti giuridici (diritto di famiglia) e infine gli aspetti psicologici, emotivi e le motivazioni della donna.

Il fenomeno dell’abbandono, sotto tutte le sue forme?
Noi consideriamo l’abbandono alla nascita: i bambini che venivano lasciati sulla piazza o davanti alla chiesa. È il nostro tema.
Noi preveniamo l’abbandono successivo, anche alla nascita l’abbandono è traumatico, sia per la madre che per il bambino, però siamo convinti che lo sia di meno rispetto all’abbandono successivo.
Un altro aspetto della formazione riguarda la prevenzione, la necessità di saper riconoscere la difficoltà materna già prima del parto, per vedere i segnali, negli ambulatori.

Quali sono questi segnali?
Per esempio una donna che al quinto, sesto mese di gravidanza fa il primo controllo è un segnale: bisogna chiedersi il perché. Se una donna si presenta alla fine del terzo mese, o al quarto e insistentemente chiede l’interruzione di gravidanza, questo è un segnale, bisogna approfondire, senza rispondere semplicemente: “ Mi dispiace signora non può più farla, arrivederci”. Bisogna proporre alla persona un colloquio con lo psicologo, con l’assistente sociale.
La minorenne non accompagnata, o male accompagnata o le gravidanze seguite con trascuratezza: sono tutte situazioni cui prestare attenzione, può darsi che non sfocino in un non riconoscimento, ma in ogni caso parlano di una difficoltà nell’affrontare questa prossima nascita. Noi puntiamo molto sull’insegnare a riconoscere questi segnali per creare un percorso di sostegno per la donna già durante la gravidanza, perché le situazioni più difficili sono quelle in cui la donna arriva al parto senza conoscere nessuno.

Potete descrivere la tipologia delle persone che arrivano a voi?
Dall’inizio del progetto Arianna nel 1998, soltanto dopo due anni dall’apertura del servizio, abbiamo potuto prendere in carico le donne direttamente. I casi che abbiamo seguito sono stati 221. Nei primi anni, per la maggior parte erano italiane; dal 2000 in poi sono aumentate le straniere. Questo ovviamente rispecchia l’afflusso migratorio. Abbiamo visto che questi due gruppi hanno delle caratteristiche un po’ diverse, sia per l’età media che per le motivazioni. Le donne italiane sono più giovani e sono alla prima gravidanza, mentre le straniere hanno spesso già una famiglia in patria.
Bisogna precisare che su queste 221 donne non tutte hanno poi lasciato il bambino in adozione: sono donne che hanno espresso difficoltà materna durante la gravidanza e che il nostro servizio ha seguito dal quinto/sesto mese di gravidanza fino al parto e anche dopo.

E su queste 221 quante sono quelle che non non hanno riconosciuto il bambino?
Il 56 % non ha riconosciuto e il 44 % ha riconosciuto.

In maggioranza, queste donne sono da sole o hanno un compagno?
In maggioranza, trasversalmente, queste donne sono da sole. Poche hanno un compagno, o comunque poche hanno un compagno che si renda disponibile. Tante donne non hanno neanche informato il partner, o perché lo conoscono appena, o perché è meglio così, o perché non lo ritengono all’altezza. Laddove lo informano, soltanto il 10% si rende disponibile ad aiutarle. Non tanto per una paternità, ma anche soltanto per il percorso fino al parto. Nella maggioranza dei casi quindi la responsabilità del nascituro sarà unicamente della donna.

Quindi è tangibile quella solitudine di cui si parlava prima?
Una solitudine totale. Anche nelle giovani donne italiane che vivono in famiglia, apparentemente in una buona situazione, emerge poi una profonda solitudine interna, legami complicati, difficili e superficiali con i familiari. In molte ci dicono che non possono assolutamente dirlo ai genitori, i quali fino al nono mese non si accorgono di nulla. Diciamo che le persone vivono insieme, ma non si guardano, non si ascoltano e non si vedono. Meglio non vedere: forse è anche quello che trasmette la donna stessa: è lei la prima che nega, nega a se stessa, non vuole affrontare e invia all’altro il messaggio: meglio che tu non veda, meglio che tu non affronti la situazione.

Come mai non abortiscono, dato che l’aborto è possibile e legale fino al terzo mese di gravidanza?
Non ci arrivano perché l’inconscio le tradisce. C’è una separazione tra mente e corpo, la gravidanza fisiologica va avanti e la mente non legge i segnali del corpo. In fondo c’è un desiderio di gravidanza, o meglio, un desiderio di fertilità, più che di bambino. Questo desiderio sfugge completamente al controllo della mente. Sono tutte ragazze, o signore, che hanno accesso all’informazione, non è un problema di ignoranza. Come dice la Vegetti Finzi “l’inconscio tradisce la mente”.
Perciò arrivano a scoprire di essere incinte oramai al quinto, sesto, settimo mese di gestazione. Sono divise tra l’imporsi del proprio stato e la difficoltà di trovare in sé e nel proprio contesto di vita uno spazio materno. Per questo sono portate a nascondere ciò che provano, rimandando continuamente per ansia e paura il momento di affrontare realisticamente ciò che sta loro accadendo.

Quali sono le motivazioni esplicite che danno quando arrivano da voi?
Noi abbiamo distinto le motivazioni personali dalle motivazioni ambientali. Se vogliamo fare due categorie le donne straniere rientrano nelle motivazioni ambientali: hanno una famiglia da mantenere, devono assolvere a un compito ben preciso, devono guadagnare; una gravidanza interromperebbe questo processo, perché perderebbero il lavoro, non hanno la casa e le difficoltà sono tangibili. Infatti i dati ci dicono che queste gravidanze avvengono nei primi tre anni di migrazione, non dopo, quindi durante gli anni più precari, quando non hanno ancora il permesso di soggiorno.
Per le donne italiane le motivazioni sono più personali: la problematicità famigliare, i rapporti all’interno della famiglia e la problematicità personale, in cui spesso ricorre un atteggiamento del tipo “Io sono incapace, non sono in grado”. Questo è legato anche alla nostra società in cui l’aspettativa è sempre molto alta.

Quindi gioca l’immagine idealizzata di come deve essere una madre?
Piuttosto è necessario avere compiuto alcuni passi prima di fare figli. La donna oggi deve prima realizzare se stessa, e poi può diventare madre. Questo vale per tutti, si fanno pochi figli; si rimanda perché prima si vuole avere un lavoro stabile, una casa, una relazione fissa. Tutti presupposti considerati indispensabili al mettere al mondo un figlio. Quindi “Se io non ho ancora tutto questo la gravidanza mi mette in crisi, non me la sento, non sono pronta, non sono in grado”.

Ci sono anche persone con disagi di ordine psichico?
Alcuni casi, ma sono un’assoluta minoranza, presentano patologie psichiatriche.
Invece un fenomeno recente riguarda coppie coniugate che riscontrano un handicap del bambino alla nascita. Sono situazioni che non sono arrivate a noi prima perché era il decorso di una gravidanza normale, desiderata, fisiologica. Poi, alla nascita, viene riscontrato questo handicap, scoppia una grave crisi nella coppia. L’ospedale allora ci chiede uno spazio di sostegno per questi genitori nella scelta rispetto al bambino.

Quindi si può fare questa scelta anche dopo il parto?
Sì, fino a dieci giorni dopo il parto. I genitori possono avvalersi della legge sull’anonimato al parto e lasciare il bambino in adozione.
In questo caso non si tratta di un percorso per arrivare a una scelta consapevole, ma per rivedere una scelta fatta, quella di non tenere un bambino gravemente handicappato.

Certo, perché hanno fantasticato un bambino che non c’è, o meglio che è diverso, non corrispondente alle aspettative, inaccettabile per loro.
Spesso facciamo un pezzo di lavoro qui, massimo sette, otto sedute, e poi viene indicato un trattamento fuori, per uno o i due membri della coppia. Perché è un percorso lungo, che muove molte cose. Questo è un fenomeno nuovo.

Rispetto alla motivazione iniziale di questo servizio, prevenire l’infanticidio, quali sono le vostre valutazioni?
Noi pensiamo che il fenomeno dell’infanticidio continuerà a esistere perché è un fenomeno diverso. Pensiamo che riuscendo ad agganciare alcune situazioni forse abbiamo evitato una nascita drammatica.
Però nelle situazioni di infanticidio ci sono componenti pregresse, non è una scelta consapevole, è una scelta totalmente inconsapevole, che si compie con un velo davanti. Anche togliere questo velo è un compito difficile. C’è una chiusura tale in queste situazioni, attorno alla donna, che non permette l’arrivo in un servizio o addirittura in un ospedale. La donna stessa è chiusa, oppure le persone che le stanno intorno non le permettono di uscire da quello stato. Spesso sono parti anticipati, non arrivano a termine, nella negazione c’è anche l’improvvisazione del parto, lo shock, l’urgenza.

Tra le donne che avete seguito quelle che hanno poi fatto la scelta di tenere il bambino, lasciate sole, non avrebbero potuto trovare le risorse sia interne che esterne per poter accogliere il bambino?
Assolutamente no, perché la possibilità di fruire di un contesto protetto di sostegno, in cui affrontare le proprie responsabilità e orientarsi, aiuta la donna a superare una situazione di isolamento e di angoscia che le impediva di pensare.
La donna fa un percorso, e noi la accompagniamo, facendole notare tutte le sfaccettature della sua situazione, vedendo le possibili risorse e valutandole insieme a lei. A un certo punto alcune di esse capiscono di potercela fare, mentre altre non ci riescono, non trovano queste risorse. Una cosa che si fa sempre è di cercare se c’è qualcuno che potrebbe essere di aiuto; ci dicono: “non ho nessuno”. E poi nel percorso viene fuori che qualcuno c’è. Magari ci vuole un po’ di coraggio per affrontarlo.
Comunque in entrambi i casi si arriva a una scelta veramente pensata. Anche la scelta di non riconoscere è una scelta pensata, sia rispetto a un proprio spazio interno che rispetto alle esigenze, alle necessità del bambino, nel riconoscere che anche lui ha dei bisogni. Spesso le donne in vicinanza del parto fanno domande più precise su che cosa succederà al bambino e sentiamo che sono rassicurate dal sapere che il bambino dall’ospedale andrà direttamente in famiglia, che è un’adozione immediata.

Questo le aiuta in ogni modo a prendersi la responsabilità di quella nascita, e del futuro di quel bambino, che sia tenere il bambino o lasciarlo in adozione? C’è un processo di consapevolezza rispetto alla negazione che è avvenuta prima, finché si sono accorte della gravidanza e hanno dovuto chiedere aiuto?
Sì. Arrivano con la negazione, non parlando quasi della gravidanza. Il percorso è arrivare a parlare di sé e del bambino.

Il parto è un momento impegnativo. Il fatto di non riconoscere ha un influenza sulla scelta del parto? Può rendere difficile l’uscita di questo bambino?
Per tutte le madri è così: c’è chi è pronta e può avere un parto facile, e chi non è ancora mentalmente pronta, quindi va oltre il termine, e può avere un parto difficile, lungo.
Mi ricordo che in uno dei primi incontri di formazione alla Mangiagalli, otto anni fa: una domanda di un’ostetrica riguardava la necessità di un parto cesareo perché la donna non dovesse vivere la nascita. E invece no, è un parto normale. Spesso, appena arrivano, chiedono se possono fare un parto cesareo perché non vogliono vedere né sentire. E noi cerchiamo un po’ di vedere cosa c’è dietro questa richiesta per far loro capire che un parto cesareo si fa per indicazioni mediche. È un lavoro che facciamo insieme a loro per esprimere le paure, le emozioni che si stanno scatenando. Il parto deve essere trattato come per le altre donne. È un parto a tutti gli effetti, non “un parto per lasciare il bambino”.

Vedono il bambino appena nato?
Possono vederlo oppure no, è una loro scelta.
La madre può chiedere di vedere il bambino anche dopo. In tal caso si organizza un incontro con l’assistente sociale dell’ospedale e con una puericultrice, viene accompagnata nel vedere il bambino perché per una donna che ha deciso di lasciare il figlio, questa richiesta ha un significato.
Così come ha un significato se una donna chiede ripetutamente di vederlo: allora c’è un problema di separazione, e bisogna affrontarlo bene.

Capita che poi cambino idea all’ultimo momento?
Sì, capita. È successo recentemente a una ragazza, che ha tenuto il figlio; lei per esempio aveva un compagno; però i problemi erano di precarietà per entrambi. Poi, al momento della nascita, ha cambiato idea.
Come dicevamo il parto non è per lasciare il bambino ma per fare nascere il bambino, per vederlo, per rivedere le proprie emozioni, i propri vissuti e arrivare a una scelta che si definisce dopo il parto. Qualche madre ci chiede se deve firmare qualcosa prima, noi spieghiamo che tutto arriverà dopo, che avrà modo di parlare con noi e con l’assistente sociale dell’ospedale. Riceverà le informazioni sul percorso dell’adozione in modo formale, sono informazioni che abbiamo già dato ma che diventano formali in quel momento e possono essere comprese anche meglio.

Le madri non vengono a sapere da chi è adottato il bambino?
No. Quando la separazione è compiuta non c’è più ritorno. Sono due strade separate. La nostra legge sull’adozione vieta all’adottato maggiorenne di avere accesso ai dati dei genitori naturali.
C’è un contrasto tra il diritto alle origini sancito dall’ONU che dice che ogni bambino ha il diritto a sapere delle proprie origini e la nostra legge che garantisce alla donna il diritto all’anonimato. Sono due leggi incompatibili. Adesso, in Italia, varie corti costituzionali si sono espresse a favore della donna, quindi il suo diritto all’anonimato non può essere leso dalla ricerca delle origini, ma la discussione è aperta su tutti i fronti, non è così semplice.

Questo fenomeno dell’abbandono alla nascita è un fenomeno che è sempre esistito, in tutte le epoche storiche, a causa di situazioni più o meno stabili economicamente, in guerra piuttosto che in pace. Dobbiamo considerare che ci sarà sempre, come un fenomeno che fa parte dell’organizzazione sociale?
Certo, anche nella società del benessere. Va detto che rispetto agli anni ‘50 è diminuito tantissimo e le politiche della famiglia hanno influito in questo senso. Però sotto una certa soglia non si scende; per esempio abbiamo confrontato i numeri con la Francia dove le politiche per la famiglia sono ancora più favorevoli, il fenomeno rimane nelle stesse proporzioni.

Cosa resta da fare rispetto a questo fenomeno?
Noi continuiamo a pensare che l’informazione sulla difficoltà materna in generale, non soltanto rispetto alla problematica specifica di cui ci occupiamo noi, rimane insufficiente o inadeguata. Basta guardare come vengono riportati i fatti di cronaca; invece di cercare di suscitare emozioni nel pubblico, bisognerebbe cogliere l’occasione per dare informazioni precise. Noi pensiamo che un’informazione più puntuale potrebbe muovere qualcosa. Da un punto di vista socio culturale il tema dell’impossibilità materna è molto complesso: pregiudizi, stereotipi e comportamenti difensivi ne rendono più difficile una valutazione razionale. I mezzi di informazione potrebbero sollecitare un atteggiamento riflessivo e non superficiale sul fenomeno, noi ci battiamo per questo.

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